Il migliore dei tempi, il peggiore dei tempi

Non so se qualcuno si sia mai chiesto quanta depressione abbia portato in Italia, nella mia generazione, in quella precedente e in quella successiva, il fatto di essere rimasti senza lavoro o senza punti di riferimento per il futuro.

Non ho un osservatorio privilegiato, eppure quel che vedo tutti i giorni mi basta. Tristezza a palate che basterebbe metterci sotto “Street of Philadelpia“.

Non parlo di piccole nevrosi, dei cedimenti quotidiani visibili sulle nostre facce, fragili display di emozioni, fatti che ormai danno per scontati e infiliamo d’ufficio nella categoria “stress”. Parlo di quelle cose che ti acchiappano alla bocca dello stomaco mentre sali a casa la sera e pensi a domani. Quelle che diventa difficile perfino fare una telefonata, perfino spiegare cose ovvie, un senso di impotenza che prende alla bocca dello stomaco e rende complicate e drammatiche cose formalmente facili.

Insomma, hai presente quei giorni che ad un certo punto, camminando, devi trovare un punto di riferimento in strada – un salumiere, una edicola, una pubblicità molto visibile – perché manco sai dove stai?

Tutte queste cose le ho viste, le ho sentite, me le hanno raccontate. Possibile che nessuno, parlando di precari, choosy, generazione, contrattualizzazione, abbia mai pensato al tasso di infelicità che genera tutto ciò, concentrandosi sull’economia, sul Pil, sulle percentuali? Ma dov’è scritto che dobbiamo essere infelici, aspettando la stabilizzazione, il reintegro, la cassa integrazione, il sussidio di disoccupazione?

Ascolto un sacco di gente sui temi del lavoro e non riesco più a parlare con le persone che non pensano alla felicità quale sfuggente linea di traguardo da farsi sfuggire, sorridendo e cercando di riacchiapparla. I più illuminati mi parlano spesso di decrescita felice. E poi pure quella è diventata un movimento con le regole, le assisi, le strutture, un ragionamento. Io invece parlo proprio della felicità, quella classica di Trilussa:

C’è un’ape che se posa
su un bottone di rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.

Buon compleanno, Coordinamento

(non era mai accaduto: stare così tanto tempo senza scrivere qui. Ma scrivere qui non è come farlo su Twitter, su Facebook.  Da qui è iniziato tutto).

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Buon anno nuovo.

Che ci siano i Maya o sia un bisesto funesto non ci preoccupa più di tanto. Dovrebbe andar peggio? Dirlo è un vantaggio per chi vuole che non accada nulla. Già, perché ci solleva dall'idea che occorra energia – tanta – per poter cambiare qualcosa. Aspettando il versamento della sesta coppa e l'Armageddon qualcosa dobbiamo pur fare.

È stato un anno strano, il 2011 (e quando mai). I miei primi 365 giorni da ultratrentenne precario, ma di questo ne scrivo poi meglio. Ho girato, ascoltato molto. Impari ad ascoltare con l'età.

L'urlo strozzato in gola di chi vorrebbe e ne ha possibilità, ma non può. Non ce la fa. Tutti inchiodati qui come laboriosi criceti. Dice Raffaella: «Ammetteremo di essere messi male solo quando ci toglieranno la connessione adsl e non potremo più lamentarci via Facebook?».

«Nulla è sicuro, ma scrivi». diceva Fortini. Scrivere è fatica sempre meno considerata, sempre più malpagata. Molti giornalisti dicono una cosa che condivido: ormai a portare notizie si diventa quasi fastidiosi.

Meglio i giornali, tv, radio e web piene di nulla.  Del resto: media tranquilli, popoli muti.

Per raccontare i giorni nostri, quel nostro tempo che è adesso, dobbiamo riappropriarci anche dello spazio fisico. Quando avevo 16 anni erano i centri sociali, c'era "fame" di luoghi. Ora il luogo è Rete. Però ogni tanto quella rete va stesa, per capirne la lunghezza, capire dove si dirige e quant'è grande.

Noi, due anni fa, fondavamo il Coordinamento dei Giornalisti precari della Campania. Non esisteva nulla del genere. Abbiamo fatto tanta strada. Long and winding road. Vite, stili e idee diverse a sintetizzare un unico obiettivo: accendere riflettori su questo mestiere. Ci siamo riusciti, in parte. La Carta di Firenze, il bene confiscato alla camorra.
Ma tanto c'è da fare, ancora.

Buon compleanno, Coordinamento.

 

 



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Il regalo di Giancarlo

Napoli, 19 settembre 1959 – Napoli, 23 settembre 1985
«Della mia generazione ho potuto conoscere migliaia di persone perché per un bel po’ di anni quella gioventù, è uscita di casa e ha occupato vita e strada di questo Paese. Ha perlustrato in lungo e in largo la società che aveva intorno e ha potuto conoscere la società che lei stessa già costruiva. Se non ho amici tra i compagni di scuola, ne ho avuti in cambio migliaia dopo. Quindi non è per combinazione che ho conosciuto Giancarlo Siani, ma per l’immediata spinta a riconoscervi che avevano quelli che sono stati giovani negli anni ’70».
Erri De Luca, “Il cronista scalzo” 1996

L’anno scorso, per chiudere un cerchio che mi aveva portato da un nuovo lavoro alla cassa integrazione, mi fermai mezz’ora così, in piazza Leonardo al Vomero, dove uccisero Giancarlo Siani. Senza velleità d’alcun tipo. Solo per fissare bene nella memoria una piazza che fino ad allora avevo sempre percorso di sfuggita.
Nacque lì l’epilogo  di un libretto  sul giornalismo ai tempi del telelavoro che immeritatamente vinse proprio il “premio Siani” e che stranamente in dodici mesi non ho avuto il tempo  di  far pubblicare, pur nonostante qualche lusinghiero – e ancora stavolta immeritato – interessamento.  Con quello che è successo nei mesi a venire penso che ora potrei aggiungere un capitolo. O addirittura riscriverlo del tutto.
Eppure, anche quest’anno, in un mese abbastanza complesso, l’unica bella notizia è arrivata proprio quel 23 settembre, quella data così cupa, il giorno che ammazzarono Giancarlo.
Poi giorni passati immerso in un acquario e ieri, come spesso accade nella vita, è stata una cosa piccola piccola a ridestarmi da questa specie di trance.
In redazione (quella centrale a Cagliari) è arrivato un fax: è  di una ragazza napoletana di 18 anni i cui genitori lavorano entrambi in Alitalia. Lei ha pensato che era giusto prendere carta e penna e sintetizzare quello che papà e mamma forse dicono arrabbiati davanti ad una televisione, mentre guardano i loro colleghi in piazza o i soliti programmi di approfondimento sul caso.
Nel fax c’è scritto: «tra l’altro sono un’aspirante giornalista e ho sentito il bisogno di scrivere la mia». Il titolo dell’articolo è “Il futuro dei giovani nelle mani dei lavoratori Alitalia”.

E ho pensato che nient’altro è il senso di questo mestiere. È la 18enne liceale, arrabbiata, che dice di aver sentito “il bisogno” di scrivere. È Raffaella –  notoriamente timidissima – che prendendo la menzione assegnata quest’anno a “Santa Precaria” ha detto al direttore del “Mattino” Mario Orfeo, in una sala strapiena: bello qui in redazione, oh quasi quasi ci resto, perché non mi assumete? È la cocciutaggine di Arnaldo Capezzuto che si prende sputi, minacce e schiaffoni da quegli imbecilli razzisti che a Pianura vogliono cacciar via da un palazzo un gruppo di immigrati (mentre io al telefono cerco disperatamente come sempre di scongiurare la sua morte…); è Peppe Porzio che  dimostra cosa signfica rimettersi in gioco da professionista  vero e riparte dai vicoli del rione Sanità .
È la limpidezza di Ottavio Lucarelli, il nostro presidente dell’Ordine dei giornalisti che in tivvù ha abbattuto un allucinante tabù (o forse eccessivo pudore?) appartenuto a dire il vero più ai giornalisti della vecchia generazione: non ammettere chiaramente che Giancarlo Siani, il giornalista modello, il talentuoso cronista, il simbolo anticamorra, quella sera di settembre, quand’è stato ammazzato al Vomero su quella strana  macchina, poco dopo aver compiuto ventisei anni, era un collega precario.

Aaa giornalisti cercasi in Rai e in Bbc. Che differenza, però

La Rai, Radio televisione italiana ha deciso che dobbiamo convincerci che è trasparente come una casa di vetro. E ha quindi messo on-line le procedure concorsuali dei contratti a tempo determinato (leggasi contratti da precario).  La Rai dovrebbe essere lo specchio del Paese, lo è solo nelle cose peggiori: i requisiti del bando sono laurea con 110/110; massimo trent’anni d’età (classe 1978); tessera da giornalista professionista. Somma tutti questi requisiti e avrai un allievo delle scuole di giornalismo, non un cronista di strada, un collega cresciuto sul campo, vil razza dannata. A questo punto, è decisamente più seria la “selezione” di Michele Santoro per Anno Zero che non c’entra niente col giornalismo ma almeno è reale, è lo specchio di questo Paese.
Insomma, in Rai è così, ma nel resto d’Europa? Io non voglio far ricerche, ma la Bbc (eh già, sempre lei) ha una pagina dettagliata su tutte le posizioni aperte nel Gruppo. Ma basterebbe andare sul Guardian job. Alla voce giornalisti cercasi.

Update: su Infodem lo scontro Usigrai-Ordine dei giornalisti

Update 2: su Articolo 21 petizione che chiede il cambiamento  dei criteri d’accesso al concorso.

Santa Precaria, la storia di un’estate. E di libri, di Sud

Questa è la storia di un’estate

Raffaella ha scritto un libro. Ne parlerei in termini più “commerciali” e meno epici, se non fosse che scrivere un libro da queste parti, equivale a rivoltare il mondo come un calzino. Dico scriverlo per la prima volta e senza pagare qualcuno per farlo o pubblicarlo, scriverlo contando esclusivamente sulle proprie forze, economiche ed emotive.

Lo sapete quanto sono grossi e lenti gli elefanti…?
Annibale – Almamegretta

Quanto sono grossi e grandi, gli elefanti della Cultura, i Signori della recensione e gli Imperatori degli scaffali. Di “Santa Precaria”, così si chiama, parlerei quasi come un figlio, ma anche più lunga di un bimbo è stata la sua gestazione. Perchè un romanzo, nasce nello stomaco, arriva nella testa e poi nella penna. E dopo quel bambino devi darlo in pasto al formato pdf, alle copisterie, alle Poste Italiane. Lo mandiamo o no a Mondadori, Rizzoli, Fazi, Minimum Fax, Stampa Alternativa e Edizioni del Monaco ricchione di castel Pusterlengo? Molto meglio fare il giornalista, mi dico, mentre guardo le agenzie, butto dentro una foto e un titolo.

“Andiamo? Andiamo pure
La passeggiata – Palazzeschi

Viaggia, viaggia il libro e le risposte che arrivano sanno di “vi faremo sapere”, mentre sul tavolo ci sono ancora tante lettere, tanti plichi di posta ordinaria 4,50 euro. Proporre un libro costa, che credete? Mica facile, specie se poi abiti nella periferia dell’Impero, dove ti abituano a fare la croce quando esci dal paese e vedi il cartello sbarrato che lo testimonia.

“‘Addiu, ‘ttalia!”
Vecchia di Eboli quando l’auto, uscendo dal paese, ha imboccato l’autostrada.

È bello. Doveva chiamarsi “May Day”, come possibilità e richiesta d’aiuto. Ma è bello uguale, perché è la sua risposta al mondo dopo tanti problemi, tanti drammi che il mondo stesso non sa, non può sapere. “Santa Precaria” si chiama e lo si deve in gran parte a Stampa Alternativa, a quel galantuomo che si chiama Marcello Baraghini, un editore per missione e passione, uno che ti parla di letteratura storica e poi caccia una busta di fagioli rossi del suo paese, uno che ha detto: vendiamoli a mille lire, ‘sti cazzo di Epicuro, Emily Dickinson e Lorenzo Milani. Uno che quand’ha letto quel manoscritto ha mandato una lettera di risposta garbata e dolce.
Su carta velina, scritta con una vecchia Olivetti.

Questa è la storia di un’estate, dunque, e non parlerei nemmeno, di questo libro, per la regola di “autocontrollo” che mi sono dato sulle cose che mi coinvolgono troppo. Vado a moderare io alcuni dibattiti. E che dico dei precari del giornalismo, o volendo allargare, di quelli della comunicazione? Vorrei un pensiero superficiale che renda la pelle splendida (cit.) e vorrei una parola condivisa che riunisca tutte le cose da dire, per poter dire poco o nulla. Ma invitare a leggere e far leggere. Comprerei io 2-3mila copie per regalarlo in giro, come fosse un gigantesco bookcrossing, un tam tam africano.

Avete mai ascoltato “L’estate sta finendo“? Ecco, questo libro è come ascoltare i Righeira unplugged. Voce, piano e chitarra, “L’estate sta finendo” è una delle canzoni più belle degli anni Ottanta. Ma bisogna scoprirla, semplificandola dall’elettronica. Così Santa Precaria, romanzo unplugged. Non c’è voglia di piacere a tutti costi, nè di compiacere. C’è solo una storia, un lavoro. E un mondo.

Dicamolo, va’. È normale faticare il doppio, da queste parti, per vedersi riconosciuto un risultato? Santa Precaria è solo il titolo, intorno c’è tutto un progetto. Raffaella ha disegnato la copertina, il corno che vi è rappresentato è opera di Tiziana e Daniela, due bravissime ragazze artigiane di via San Biagio dei Librai, la “strada dei presepi” di Napoli. È rosa. Per non scordarsi che la fortuna di trovare un lavoro è sbiadita. Ed è donna, in certi casi è pure una gran puttana. I disegni di Mimmo e Caterina, protagonisti del romanzo, sono di Fran, altro talento che ha avuto la ciorta di abitare da queste parti. Altrimenti già collaborerebbe con un settimanale nazionale, darebbe lezioni di disegno, avrebbe 2-3 consulenze e di conseguenza, un conto corrente. E invece qui, da queste parti, è tutto lillipuzziano: Gianni Solla chiama il suo “Airbag” “libretto” ed è un bellissimo romanzo.

In spiaggia di ombrelloni
non ce ne sono più
è il solito rituale
ma ora manchi tu.
L’Estate sta finendo – RIgheira

Raffaella intanto si diverte mettendo le mani nello scatolone di libri, manco fosse marmellata, e bestemmia: qualcuno nella sua città, ed esattamente qualcuno che lavora lì dove lei ha fatto la schiava per un anno, con un contratto da morto di fame, non vuole farle presentare il libro.
Ad Eboli, lì dove Cristo probabilmente si è fermato e non ha trovato nemmeno un cesso per pisciare, già è scattato il boicottaggio: mentre in tutto il resto d’Italia Feltrinelli e Fnac dalla prossima settimana venderanno tranquillamente il tomo, le micragnose librerie locali non vogliono acquistare copie del romanzo, non vogliono nemmeno tenerlo esposto. Pare che l’abbiano deciso quando hanno capito di che e di cosa trattava.

Ci sarà da divertirsi.