Elezioni Ordine dei giornalisti 2013: perché mi candido in Campania

Se andate di fretta qui c’è la storia breve. Parla di Elezioni Ordine dei giornalisti 2013

Bisogna imparare la lezione da qualsiasi parte arrivi. In questi mesi stiamo sentendo parlare esclusivamente di elezioni. Ce n’è una che mi interessa personalmente, è quella per il rinnovo dell’Ordine dei giornalisti. Sono tre anni che col Coordinamento dei giornalisti precari Campania portiamo avanti un progetto. Un tentativo di disambiguazione: spieghiamo alle persone che il giornalista non è una casta. Che oggi, anno 2013, fra giornalista precario e operatore di call center precario non v’è alcuna differenza. Abbiamo fatto assemblee, riunioni, abbiamo parlato da palchi sindacali, abbiamo perfino fatto irruzione in alcuni convegni, abbiamo contestato, abbiamo tenuto il megafono in mano e gli striscioni. Nessuno di noi gioca alla rivoluzione: non c’è tempo, non c’è più tempo per giocare. Strappiamo i momenti necessari all’organizzazione di questo movimento alla vita privata, al sonno. Abbiamo rimesso al centro della discussione, in Campania, la questione dei precari. Per questo io vi dico, cari 25 lettori di questo blog, che mi candido alle Elezioni Ordine dei Giornalisti 2013, come consigliere nazionale in Campania. Con me in questa battaglia ci sono altri amici e colleghi: troverete i loro nomi in calce e a questo link.

Se avete due minuti in più, questa è la storia lunga (parla sempre di Elezioni Ordine dei giornalisti 2013)

Sono fortunato. Me lo dico nonostante le strade piene di munnezza, il degrado che in alcune zone di Napoli ti «zompa ‘nfaccia». Nonostante veda i miei amici piano piano andare tutti via per lavoro: Roma, Milano, Irlanda, Francia, Inghilterra, Belgio, Stati Uniti. Uno dei pochi pensieri che mi ferisce è sapere che non potremo mai più incontrarci tutti insieme come un tempo. Ma ripeto: sono fortunato. Siamo tutti fortunati. Siamo nella merda – che notoriamente puzza di merda ma partorisce fiori -. E i diamanti? Li troveremo, prima o poi? O avranno saccheggiato tutte le miniere? E quando li troveremo saremo ancora puri di cuore come ora, o avremo l’animo incupito, macchiato dalle troppe delusioni, dai tradimenti, accecato dalla rabbia e voglioso solo di cose, cose, cose? Le dannate cose che non fanno la felicità ma costruiscono un involucro felice. Per questo dico che sono fortunato: ho raggiunto questa consapevolezza.
È come se a trentasei anni mi fossi operato di cataratta e vedessi tutto più chiaro. Quanto dura la vita? Settanta, ottanta, novanta, cento (io centodieci eh) anni? E qual è la differenza tra una vita consumata fra le cose e la voglia di cose e quella spesa nelle idee? «Molti Maalox in più e un fegato così», direbbero i miei amici ex comunisti ora alle prese coi guai del Pd. Io dico che è la passione. Nel senso di «amor che move il sole e l’altre stelle» ma anche nel senso etimologico del termine, di patire. Un termine che a sua volta ha molto a che fare con la simpatia. E non siamo davvero pieni di patimenti e di passioni, noi, di questa generazione? È pur vero che ci indigniamo per due clic su Facebook ma è altrettanto vero che scriviamo tanto, tantissimo. E che chi fra di noi riesce a dare il giusto senso e il giusto peso alle sue parole riesce a veicolare e molto facilmente le sue idee ad un grandissimo numero di persone: una cosa mai vista fino ad ora. Abbiamo enormi possibilità di cambiare le cose, abbiamo enorme necessità di farlo: siamo un poco più lenti dei nostri predecessori. Non viviamo tra le macerie di una guerra ma camminiamo tra palazzi pericolanti: non possiamo sapere quale ci crollerà addosso; dobbiamo stare attenti. E siamo giovani, anche il più vecchio di noi è giovane. Se l’è conservata, la sua giovinezza, non consumata tra gli atti di violenza che hanno caratterizzato le generazioni precedenti, incupiti e più disillusi dei nostri padri e dei nostri nonni (dei quali conserviamo l’attitudine pericolosa ad amare l’uomo solo al comando) ma al tempo stesso con la grandissima possibilità di studiare le carte, i fatti, i nomi, le circostanze. Riusciamo a dare un senso e un nome a ciò che vogliamo.

Detta così, sembra davvero che grandi pensieri partoriscano poi piccoli atti: di tutte queste parole ciò che accade è la candidatura all’Ordine dei giornalisti? Quel luogo antico e inutile che tantissima gente – probabilmente a ragione – vorrebbe abolire? La questione è molto semplice: ad un certo punto di una battaglia bisogna far capire alla tua controparte cosa sei disposto a fare. Addirittura a scendere sul suo terreno, quello del consenso elettorale, dei signori delle tessere, del voto di scambio tale e quale a quello che quegli stessi giornalisti poi condannano dalle colonne del loro importante quotidiano. «Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità» scriveva Sun-Tzu. E invece pare che stavolta useremo un’altra tattica, quella meno antica ma comunque datata, dei disoccupati organizzati napoletani che cantavano ai politici trombati per sfotterli un coretto caustico all’ennesima potenza: «è fernuta ‘a zezzenella / sò passat ‘e tiempe belle / piglia ‘o fierr e ‘a cardarella / è ‘o mumento e faticà». Speriamo il 19 maggio prossimo di cantarla anche noi a qualcuno.




Perché dovrei affliggermi ora?

Mi chiamo Ciro Pellegrino, sono un giornalista, sono nato a Napoli il 27 febbraio del 1977 . Oggi, dunque, è il mio compleanno. Compio 36 anni. Due volte 18  ed è quanti in effetti vorrei sentirmene. Qualche giorno fa sono stato con un bravo e intelligente giudice campano, Raffaele Cantone, ad un incontro con i ragazzi di un prestigioso liceo di Napoli, il “Genovesi”. È una delle cose che in assoluto più mi emoziona, parlare ai ragazzi. Sarei rimasto lì per ore. Qualche ora dopo sono andato a votare, qualche ora ancora dopo ho scoperto che il centrodestra di Luigi Cesaro (capolista PdL) e di Nicola Cosentino (non candidato) aveva vinto in Campania per l’ennesima volta. Ho scoperto che il centrosinistra aveva perso e che Beppe Grillo col suo movimento aveva superato ogni aspettativa. E così (più o meno…) in tutt’Italia. Io vivo a Napoli e a Napoli lavoro, faccio il giornalista. Sono precario o meglio lo sono diventato dopo anni di contratto, sono stato cassintegrato e disoccupato. Nel vicolo in cui abito, proprio ora (sono le 23.20 del 26 febbraio ma questo articolo sarà pubblicato a mezzanotte del 27) stanno sparando i fuochi artificiali. Non mi stanno facendo la festa: è arrivata la partita di droga e così si segnala l’avvenuto rifornimento della piazza di spaccio. Insieme a questa succedono tante altre cose nella mia città e nella mia regione. Avrei di che essere arrabbiato.

Perché dovrei affliggermi ora? Uso questa bella frase di Osho (ma non sono un tipo new age) per spiegare il mio sentimento in questo momento: tutto va come non dovrebbe andare. Io sono nato nel 1977, lo ripeto: ho vissuto gli anni Ottanta da piccoletto, gli anni Novanta da adolescente e il nuovo millennio da ventenne. Anni difficili, per non dire di merda. Ho 36 anni da poco e la metà di questi li ho passanti parlando (non sempre) scrivendo (abbastanza) bestemmiando (ecco questo molto di più) discutendo (ahimè) di Silvio Berlusconi. Ancora mi dico e mi ripeto in queste ore: perché dovrei affliggermi ora? Quando sono venuto al mondo il presidente del Consiglio dei ministri era Giulio Andreotti, alla sua terza esperienza da premier con la Democrazia Cristiana. Dopo di lui sarebbero venuti i Fanfani, Spadolini, i Bettino Craxi. Ripeto: perché dovrei affliggermi ora? Ho vissuto la metà della mia vita sperando vi fosse qualcosa di diverso, probabilmente l’errore da giornalista e da cittadino è stato quello di dare poco ascolto alla metà del Paese che la pensava diversamente. E ancora mi ripeto, come un disperato mantra, perché dovrei affliggermi ora, proprio ora? Ci sono tante cose da ascoltare, da vedere e da raccontare e probabilmente c’è da continuare a combattere per una determinata idea di società, di vita, di cultura. Combattere ma al tempo stesso ascoltare. Capire, raccontare. Tutto questo per uno che trova notizie e racconta  storie è una manna dal cielo. Perché dovrei affliggermi ora?

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Non farti cadere le braccia: la legge per l’equo compenso ai giornalisti


Considero fratello chi con me è stato nel fango del lavoro matto e disperatissimo, nel gorgo delle mortificazioni economiche, nel vortice di rabbia che ti prende perché vuoi che la tua vita, un giorno, prenda una strada diversa, una strada giusta, sostenibile. Sono tutte cose tristi. Ma ogni tanto qualche soddisfazione ci esce.

Oggi, martedì 4 dicembre 2012, è stata approvata la legge per l’equo compenso ai giornalisti. Siamo in Italia, parliamo di una legge italiana sui diritti ai lavoratori, parliamo di giornalisti italiani: capisco gli scetticismi. Ma questa legge dice che sotto un certo livello economico gli editori non potranno più scendere. È è la prima volta che una norma sancisce ciò. L’equo compenso dovrebbe essere un concetto di civiltà, non solo una legge per gli iscritti ad un Ordine professionale. Mi piace pensare a questo come il primo passo. Non sono il solo ad averci creduto, ovviamente. Sono la minima parte di un movimento d’opinione costituito dai coordinamenti dei giornalisti precari italiani (quello della Campania, gli Errori di Stampa, i Re:fusi, i Free CCP romagnoli, i precari del Friuli, quelli del Molise e chi più ne ha, ne metta), dall’Ordine dei Giornalisti – e penso a Enzo Iacopino e Fabrizio Morviducci – da una parte della Fnsi, il sindacato dei giornalisti (l’altra parte sinceramente non ha remato contro, semplicemente se n’è fottuta) e anche da parlamentari italiani che hanno sposato quest’idea.

Non so se riesco a far comprendere la mia soddisfazione: a 35 anni non avrei mai pensato di contribuire, seppur modestamente, a scrivere una legge dello Stato. Eppure l’ho fatto, l’ho fatto diffondendo una idea di fondo, quella che il giornalista è come tutti gli altri lavoratori. Non più “sempre meglio che lavorare”, niente “casta”. Ma lavoratori, con tanti doveri e responsabilità che tutti – lettori e colleghi – non cessano di ricordare ogni santo giorno. Lavoratori con qualche diritto fondamentale che non può, non deve essere esclusivamente legato all’esistenza di un contratto giornalistico, merce ormai rarissima e in mano a pochissimi fortunati.

Se hai scelto di fare informazione e ti sei preso questa bella responsabilità il tuo editore non può far finta che il diritto alla retribuzione equa sia una cosa procastinabile alla fine di chissà quale “brutto periodo per l’editoria”, di quale “indispensabile periodo di gavetta”, “raggiungimento di risultato” eccetera eccetera eccetera.

Oggi qualcuno ha scritto che i diritti – e le notizie – non sono in vendita su una bancarella a 2 euro. Prendiamone atto: oggi è stata fatta una cosa buona.

Equo compenso

Chi e perché vuole 1,2 milioni di risarcimento per il libro “Il Casalese”

«Mi ci romperò la testa – disse a voce alta»
Il giorno della civetta – Leonardo Sciascia

 

Stamattina un tir ha deciso, bontà sua, di venirci addosso in autostrada. Qualche ora più tardi, invece, è stata resa nota  la notizia della maxi-richiesta di risarcimento danni (1,2 milioni di euro) contro editore e stampatore del libro “Il Casalese” che mi vede fra gli autori. Alla richiesta di risarcimento se ne aggiunge un’altra: ritiro dal commercio e distruzione di tutte le copie del volume non ancora vendute.

Le due cose si somigliano paurosamente. Due spaventi, due sproporzioni. Ma sono ottimista. Prima di tutto perché sono vivo (e vista la botta in autostrada non era scontato).

I legali di Giovanni Cosentino, fratello del protagonista di questo libro, ovvero il deputato della Repubblica Nicola, potente ex sottosegretario all’Economia ed ex coordinatore del Popolo delle Libertà in Campania, hanno preso di mira  il frutto di un lavoro giornalistico mai tentato finora in Campania (e ora abbiamo capito anche perché): l’analisi a tutto tondo della figura di uno fra i più potenti politici del Sud Italia negli ultimi quindici anni. Un personaggio dal peso rilevante,  sul cui capo pendono accuse per camorra e il cui arresto è stato fermato solo dal voto della Camera dei Deputati.

Sostanzialmente Cosentino (il fratello) ritiene che il libro abbia un «intento denigratorio» tale da far affermare coscientemente il falso ai giornalisti che l’hanno scritto. Nella richiesta di distruzione e risarcimento si citano una serie di vicende raccontate ne “Il Casalese”: vicende rispetto alle quali gli autori dei capitoli in questione sono pronti a confrontarsi e lo faranno, pubblicamente.

Due spaventi, dicevo. Ma non ho spiegato perché sono ottimista sulla seconda vicenda: perché l’angoscia che lorsignori possono arrecarci con fiumi d’atti giudiziari e risarcimenti milionari  è in parte compensata dalle tante domande durante le presentazioni, dalle mail dei ragazzi, dall’interesse verso quella che –  dotti medici e sapienti se ne facciano una ragione – è semplicemente un’inchiesta giornalistica.  Spero che quest’interesse cresca.

Già: nessuno di noi ha la presunzione di poter parare tutti i colpi che arrivano (e arriveranno). Per questo motivo mi (ci) scuserete se oggi anziché raccontare la notizia, la notizia siamo noi, i giornalisti autori del Casalese. E ci scuserete se chiediamo attenzione sulla nostra vicenda. Consapevoli del giusto diritto di chiunque a veder rettificati errori lesivi della propria dignità e reputazione, al tempo stesso altrettanto coscienti dell’onesto e diligente lavoro di documentazione e scrittura intorno a questo libro, non certo operazione commerciale né politica, visto che a editarlo è una piccola casa editrice di Villaricca, popoloso comune alla periferia Nord di Napoli, a cavallo fra il capoluogo  e il Casertano.

Ci scuseranno anche gli amanti dell’anticamorra-spettacolo: non siamo abituati, abbiamo fatto solo i giornalisti. Ma in Italia da giornalista a imputato il passo è breve, troppo breve.

 

È tutto intorno a te

queste poche righe le ho scritte per il mio compleanno, il 27 febbraio, pubblicate su giualsud.it, un progetto che vi consiglio di seguire.

 

Sono Trentacinque. Nacqui una domenica di 12.775 giorni fa, fatti i dovuti calcoli (ma non ne sono del tutto sicuro). In tutto questo tempo ho accumulato libri, passioni e solleciti di pagamento.
«È tutto intorno a te» mi dice oggi dice la pubblicità del cellulare. La modella guarda proprio me e lo sussurra, voluttuosa. È tutto intorno a me. Dai, senza pensarci, chiudo gli occhi. Cosa c’è? Vedo i miei trentacinque e una casa piccola in un vicolo stretto: di fronte c’è uno che sta tutta la notte con la porta di casa aperta e litiga con la moglie. Mi giro. Hanno costruito una casa abusiva, non ci vedo ma sento il rumore degli operai, parlano dialetto casertano. Hai presente Ameliè che porta in giro il cieco? Ecco, non gli somiglio per niente.
Sulla destra c’è un palazzo enorme: una volta era la casa dello Studente. Poi è diventata la casa degli sfollati del terremoto e dei tossici, oggi è la casa di nessuno. Il giornale qualche anno fa ci ha fatto un servizio fotografico: hanno trovato un maiale da allevare. Un maiale allevato in pieno centro di Napoli, al rione Sanità. Poi dice che non c’è iniziativa privata.
A sinistra c’è la strada. Il vicolo è un serpente: ci sono le scale che una volta vennero usate per il film in cui Sofia Loren faceva la contrabbandiera di sigarette e Marcello Mastroianni doveva metterla incinta per non farla finire in carcere. Il tutto era ambientato a Forcella, il regista era Vittorio de Sica. Però siccome a Forcella il contrabbando si faceva sul serio e la catena di montaggio non poteva fermarsi mai, De Sica rinunciò al realismo e ripiegò sul vicolo mio.
Scendo più giù. C’è il palazzo dello Spagnuolo nel rione Sanità. Bello, enigmatico. Nanni Loy lo amava follemente, ci ha ambientato un paio di film. Lì doveva esserci il museo di Totò, nato proprio qualche vicolo più su, a Santa Maria Antaesecula. Se n’è parlato tanto e poi nulla. Tengo chiusi gli occhi: una mattina di qualche anno fa in zona ci fu un omicidio di camorra ripreso dalle telecamere in un bar. Il killer uccise e fece le corna. Così, tanto per scaramanzia. Chiudo gli occhi e scendo. Via Foria è il mio ingresso a Napoli. Da lì partono i miei autobus verso le notizie.
Sì: dei trentacinque ne ho spesi quindici per imparare a fare il giornalista. Il fatto che non penso di esserci riuscito mi incasella automaticamente nella schiera dei cronisti timidi. Nel mio mestiere su dieci lavoratori attivi ce ne sono sette precari. L’ho detto così tante volte che qualche mese fa sono finito per urlarlo in Piazza della Signoria a Firenze, con decine di altri giovani giornalisti che mantenevano striscioni e mi ascoltavano. Il giornalismo non è «sempre meglio che lavorare» e non pagare un cronista significa avvelenare il pozzo dell’informazione: l’ho scritto nella tesi di laurea. Non ve l’ho detto ma chiudendo gli occhi finisco per ricordarmi anche questo: mi sono laureato a trentaquattro anni dopo aver passato qualche tempo a interrogarmi sulla semiotica e su quanto fosse difficile la vita di Ivan, del mago e delle vacche di Propp.
Trentacinque anni. Sono nato qualche giorno dopo Sanremo e prima degli Oscar. Capirete la vocazione al protagonismo. E sotto il segno dei Pesci, come dice la canzone che “eravamo io e te e il rock passava lento sulle nostre discussioni”.
La fortuna è che non dovrei per forza definirmi giovane, la sfortuna è che dalle mie parti è meglio farlo. È rassicurante. «Lascia stare, sei giovane. Ma sai io a quanti anni mi sono sistemato?»; «Sei ancora giovane, vedrai a quaranta»; «Signore, volete sedervi?» (no, stronza adolescente sull’autobus, non voglio sedermi ma grazie, che ti possa crepare Justin Bieber).
«È tutto intorno a te», ripete la pubblicità. Riaprendo gli occhi vedo che la modella sorride, ce l’ha proprio con me.
Giù al Sud è davvero tutto intorno a te. E siamo davvero tanto grati a chi ripulisce così bene il vetro blindato da farci sembrare tutto a portata di mano.

 

«La vita umana non dura che un istante, si dovrebbe trascorrerla a fare ciò che piace. In questo mondo fugace come un sogno vivere nell’affanno è follia, ma non rivelerò questo segreto del mestiere ai giovani, visto come vanno le cose oggi nel mondo potrebbero fraintendermi».
Giovanni Lindo Ferretti (prima che iniziasse lui, il papa e il cattolicesimo)