Dice Mario il barbiere guardando le due strisce bianche che mi sono venute ai lati: «guaglio’ , tu pure stai facenno ‘e capille janche». Sorrido perché ho sempre voluto qualche capello bianco, non ho mai pensato fossero da vecchi. Da quando ho sentito la storiella secondo cui ad ogni spavento o dispiacere corrisponde un ciuffo canuto in più, li considero tipo un premio di resistenza. Quest’anno è stato così. Guardarsi e non vedere niente, farsi guardare e scoprire dagli altri. Non mi ero nemmeno accorto che una delle mie scarpe aveva la suola spaccata : nessuno si guarda le scarpe per capire quant’ha camminato. Nemmeno un giornalista senz’auto.
Mi sono avvicinato all’oroscopo non perché ci credessi, ma perché ero affascinato dalla scrittura di alcuni astrologi. Dicevano che questo sarebbe stato il mio anno, ma ignoravano il fattore fedeltà. L’anno mi ha tradito, ha tradito la convinzione che un buon anno dovesse essere di sola serenità. Io ho tradito lui e rinnegato gran parte di quello che mi circonda. Anzi, se ci penso bene, ho tradito e rinnegato un poco tutti. Non è buono nè etico dirlo ma fatti i conti, non mi dispiace.
Ora non sono a casa mia, però lì ho lasciato una montagna di giornali ripiegati, gran parte dei libri consultati per la tesi di laurea questa primavera. Ci sono mischiati biglietti di auguri e telegrammi di condoglianze, due bollette da pagare (devo pagarle e me lo sono appena ricordato!) e un decreto di cassaintegrazione fotocopiato, spiegazzatissimo perché tenuto in una tasca di giacca tra Roma e Napoli, spiegato ai colleghi e mostrato agli amici come una nuova carta d’identità.
Non è andata male, mi ripeto.
Ci sono delle cose che ciclicamente indicano il cambiamento. L’ultima volta che ho perso conoscenza è stato più o meno cinque anni fa; siccome o faccio le cose in grande o niente, a riprendere il tutto c’era la telecamera di un regista che era lì con me per un documentario sul giornalismo. Tutto mandato in seconda serata su Raitre. Fantastico. Il giorno dopo, in piazza del Gesù estranei che mi riconoscevano e chiedevano: «ma mo? Stai ‘bbuono?». Qualche mese dopo andai via dal giornale per il quale lavoravo e iniziai una avventura che si è conclusa di recente. A quello ho pensato quando, qualche giorno fa, mi sono trovato a terra nel cesso di casa, dopo essermi fatto la più classica delle domande: «ch’è successo?». Ecco, subito dopo ho pensato: questo è il momento che si spariglia tutto un’altra volta. Ci ho scherzato tanto, dicendo di aver visto una luce bianca e di fronte il direttore del quotidiano d’oltretomba che mi chiamava: vieni, vieni; se è il paradiso è un contratto a tempo indeterminato, se è l’inferno è un co.co.co con la redazione all’ora di chiusura.
Fortunatamente non era niente.
Poi un poco me ne pentivo di quel sorriso, quando dopo qualche giorno, ho visto una persona cara chiudere gli occhi, per sempre. Abbiamo coperto tutti gli specchi con lenzuola, dice che se lo specchio riflette il volto di un morto l’anima non si libera. Una notte gelida, io restavo sulla soglia e pensavo alla Guerra mondiale, alle storie che mi hanno raccontato, papà che scappava col pane e nonna che cercava abilmente di eludere i limiti della tessera annonaria che calmierava tutto, per sfamare dieci figli.
Una storia di resistenza cittadina, una storia bella, peccato averla ascoltata solo oggi.
Però. Quest’anno ho camminato lungo un sentiero a strapiombo sul mare, io che soffro di vertigini e la stessa vertigine mi è venuta quando ho dovuto illustrare la tesi di laurea, quando ho urlato in pubblico per i colleghi e giù applausi. Quando siamo saliti in un vicolo e abbiamo aperto in fretta e furia, coi vigili che si preoccupavano, la casa di un boss che ora andrà a noi, coordinamento giornalisti precari.
Ho scritto, tanto. Superata la differenza di stesura del pezzo per un giornale piccolo e per un giornale grande, recuperato il senso del reale: raccontare da casa cancella il contatto con la strada, aumenta la boria. Scendi: poi buttare giù un pezzo sarà come scaricare una molla. Alla gente dobbiamo solo quel poco che riusciamo a raccattare per denudare i potenti, null’altro, il resto è sovrastruttura e vanità. Riscoperto il piacere di battere sulla tastiera da un bar, devo prendere il decaffeinato, ma vabbè.
Scorrono le facce, il tormentone della Smemoranda gialla di quando andavo a scuola: amici e nemici. Qualche settimana fa una voce straniera e una faccia vagamente familiare mi hanno riportato indietro di una quindicina d’anni. Una strada malamente asfaltata, di fronte il rione Siberia e un palazzone color rosa depresso: tecnico industriale statale. Sentirsi una merda, quando l’ex compagno di scuola si rivolge con distacco perché stai col blocchetto in mano e lui è nelle liste dei disoccupati indultati. Ma ti ricordi di me? Io mi facevo, tu no. Come Schizzechea di Pino Daniele. Pasca’, ‘o posto tuoio ce putevo sta io.
Dovevo recuperare dei rapporti, ci sono riuscito in parte. Non siamo più ragazzini e non si può più ricucire uno strappo col rammendo d’una idea entusiasmante o con la pezza d’una passione condivisa. Ho scoperto che è vantaggioso far parlare gli altri, ma continuo ad usare la tecnica ecce homo mostrando il fianco. Vedi, il guaio è che non siamo Sun Tzu e l’arte della guerra sarà vantaggiosa ma non fa bene allo spirito. Trovata comprensione in certi e incredibile durezza in altri. Bruttissimo è quando dopo un’arrabbiatura terribile ti accorgi che non solo non ti interessa più l’argomento ma nemmeno la persona che lo espone. Niente, come spegnere un interruttore.
Non c’è una morale nè un finale, è una cronaca minima – e inutile – di quanto accade qui, dove pure Cristo si fermò, probabilmente sorrise e si chiese il perché di tanto ritardo del suo Intercity Plus, pagato 8 euro per ottanta chilometri in 70 minuti. Continuo a macinare fatti e storie, ho una cartellina piena di appunti che lievita a dispetto della pigrizia, fuori piove e forse per la prima volta nella mia vita rimpiango l’estate e quel cielo d’Irlanda che è proprio vero, cambia veloce come dice la bella canzone.