25 aprile. Attendo nuove…

“Testamento di un padre a un figlio sulla necessità di conservare la memoria del passato” di Kriton Athanasulis
 
Non voglio che tu sia lo zimbello del mondo.
Ti lascio il sole che lasciò mio padre a me.
Le stelle brilleranno uguali ed uguali ti indurranno
le notti a dolce sonno.
Il mare t’empirà di sogni. Ti lascio
il mio sorriso amareggiato: fanne scialo
ma non tradirmi. Il mondo è povero
oggi. S’è tanto insanguinato questo mondo
ed è rimasto povero. Diventa ricco
tu guadagnando l’amore del mondo.
Ti lascio la mia lotta incompiuta
e l’arma con la canna arroventata.
Non l’appendere al muro. Il mondo ne ha bisogno.
Ti lascio il mio cordoglio. Tanta pena
vinta nelle battaglie del tempo.
E ricorda. Quest’ordine ti lascio.
Ricordare vuol dire non morire.
Non dire mai che sono stato indegno, che
disperazione mi ha portato avanti e son rimasto
indietro, al di qua della trincea.
Ho gridato, gridato mille e mille volte no,
ma soffiava un gran vento e piogge e grandine
hanno sepolto la mia voce. Ti lascio
la mia storia vergata con la mano
d’una qualche speranza. A te finirla.
Ti lascio i simulacri degli eroi
con le mani mozzate,
ragazzi che non fecero a tempo
ad assumere austere forme d’uomo,
madri vestite di bruno, fanciulle violentate.
Ti lascio la memoria di Belsen e Auschwitz.
Fa presto a farti grande. Nutri bene
il tuo gracile cuore con la carne
della pace del mondo, ragazzo, ragazzo.
Impara che milioni di fratelli innocenti
svanirono d’un tratto nelle nevi gelate
in una tomba comune e spregiata.
Si chiamano nemici; già. I nemici dell’odio.
Ti lascio l’indirizzo della tomba
perché tu vada a leggere l’epigrafe.
Ti lascio accampamenti
d’una città con tanti prigionieri,
dicono sempre si, ma dentro loro mugghia
l’imprigionato no dell’uomo libero.
Anch’io sono di quelli che dicono di fuori
Il sì della necessità, ma nutro, dentro, il no.
Così è stato il mio tempo. Gira l’occhio
dolce al nostro crepuscolo amaro,
il pane è fatto di pietra, l’acqua di fango,
la verità un uccello che non canta.
E’ questo che ti lascio. Io conquistai il coraggio
d’essere fiero. Sforzati di vivere.
Salta il fosso da solo e fatti libero.
Attendo nuove. E’ questo che ti lascio.

 

 

La non banalità di un crimine

Questa qui è una delle parti finali de “La banalità del male” di Hannah Arednt. Commentando la condanna a morte del criminale nazista Adolf Eichmann, “l’architetto della Shoah”, Arendt dice che uno dei problemi di quel processo fu proprio il dover introdurre il concetto  “crimine contro l’umanità” all’interno del sistema  di valutazione del crimine. Scrive la Arendt:

Una mattina, a Gerusalemme, mi portarono allo Yad Vashem, il museo della Shoah. Più che un museo, un memoriale, un viaggio opprimente e doloroso. Nel Giardino dei Giusti cercai gli italiani: c’erano, erano tanti.
Non c’è una morale nè una conclusione, in quel che scrivo su quest’argomento.
La frase di Hannah Harendt che ho sottolineato dovrebbe essere scolpita sulla testa dei signorsì di partito, sulle borse dei portaborse: «In politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa».

I giornalisti e il racconto (tradito) di Napoli

«Tu troverai sempre quelli che pensano di conoscere il tuo dovere meglio di quanto non lo conosca tu stesso. È facile al mondo vivere secondo l’opinione del mondo; è facile in solitudine vivere secondo la nostra opinione; ma il grande uomo è colui che nel mezzo della folla conserva con perfetta tranquillità l’indipendenza della solitudine».
Ralph Waldo Emerson

Avendo lavorato solo per piccoli e agguerriti quotidiani locali, la distanza tra il giornalismo e certi pezzi della città aveva giocato a mio vantaggio. Sempre a dire: «Parla con noi senza paura,  noi siamo diversi» e così sciogliere diffidenze.
Oggi la situazione è cambiata. C’è che non scrivo più per piccoli e agguerriti giornali. Le parole ora pesano meno del contesto in cui saranno pubblicate, rispetto alla battaglia quotidiana del giornale outsider è un salto di non poco conto. E poi la gente. La gente ti guarda e non vede te, ma la granitica testata che rappresenti. Ti porti dietro una storia non tua; non devi difendere tutto e nessuno te lo chiede, sia chiaro,  ma devi farti rispettare. Le diffidenze si decuplicano. Però ci si riesce, a sfangarla.

Mattina, esterno giorno
. Scendi e trovi i disoccupati organizzati in corteo. Cartelli contro la stampa. È la solita tiritera contro i giornali, mi dico.
Come se  poi incendiare i bus, bloccare le strade e metterlo nel culo ai pendolari fosse una conquista del socialismo.

Ma stavolta è diverso. Uno dei cartelli, è questo qui:

la foto è di www.agenziami.it

Fabrizia Ramondino scrisse dei disoccupati, ne fece articoli, un libro. Probabilmente altre epoche, altri scenari e altri soggetti; è cambiato tanto dagli anni Settanta. Ma sempre di più a Napoli si sente l’odio con il quale viene percepita la stampa. Su certe cose non si transige, la violenza è sempre da denunciare e contrastare. Ma il resto? È vero che non si parla più delle condizioni dei disoccupati, tutti i disoccupati, diventati un numeretto di statistica in una tabella sul Mezzogiorno, quando si scrive di Bankitalia o della Finanziaria. Le storie delle aziende e della gente, beh, quelle sono sparite.
Di contro, c’è la frustrazione di quelli che pensano di fare battaglie giuste e non trovano ascolto sui media. Però ci si può costruire il proprio media.

E vengo alla seconda storia.

Il Comune di Napoli ha fatto proprio così: si è creato la tivvù su internet. Ridicolizzata sul fronte politico dall’Italia intera che dopo la vicenda Global service – al di là della sua misera conclusione giudiziaria – ha alzato la sottana ad un Palazzo San Giacomo avvelenato, incapace di comunicare altro se non un malcelato ghigno, l’Amministrazione ha messo su la sua web-tv. Sembra il tiggì che propone il giovane Alex del film  “Goodbye Lenin” alla mamma che crede di essere ancora nella Ost-Berlin comunista prima della caduta del Muro.

Lascio ai link il riepilogo sindacale della storia della tivvù web.

Il racconto di questo venerdì mattina, invece, è interessante. Aiuta a capire quanto sia distante il giornalismo e certi giornalisti dal racconto della città.

Arrivo in Sala Giunta, deciso a non intervenire. Non devo, mi dico, è inutile. Che poi mi incazzo. Ascolto. Uno di loro al tavolo dice una cosa del genere: «Sindaco, lancio una provocazione: possiamo magari pensare di fare un concorsino per giovani giornalisti?»
Respiro, abbozzo. È tutto così ridicolo. Intorno ci sono colleghi d’esperienza. Pensionati da un pezzo, provenienti da grandi testate: sono loro che faranno la tivvù web del Comune. «A titolo volontario», dicono.  E per forza: se percepisci una pensione da giornalista d’altri tempi  mica poi hai bisogno di altri danari.
Un altro seduto al tavolo dice una cosa del tipo: «La Regione  Campania finanzi dei corsi di giornalismo». Nella tasca sinistra del giubbotto tengo il tesserino da professionista. Tocco la tasca: c’è ancora? Mi ricordo che sono giornalista o no? Una domanda la faccio? È un attimo. Mi alzo e chiedo come mai si è voluto affidare solo a giornalisti anziani una web-tv fatta con soldi  pubblici. A gente professionalmente nata con la macchina per scrivere. Non era meglio un laboratorio di comunicazione istituzionale che coinvolgesse anche ragazzi volenterosi? Mica si chiede ‘o posto ‘e fatica: tutti gratis. Ma avremmo un’esperienza che si trasferisce, che passa dall’anziano al giovane.

E niente, finisce come finisce.
Quello è l’egoismo,  è l’egoismo che fa rabbia. La platea ascolta l’alieno, guardo il tavolo: il mio sindaco è classe 1936. Mi fermo. Avrà capito? Macché. Il tavolo si chiudono a riccio, scatta la difesa con lo scudo della  “strumentalizzazione” e della “sterile polemica”.

Finisce allora tutto qui, direbbe Claudio Baglioni. Sì, finisce che vado a mangiare la pizza rispondendo a 21 (le ho contate) telefonate. Perché  poi sai come funziona a Napoli: tutti stanno zitti ma quando uno la dice son  tutte pacche sulle spalle e «la penso come te». Dirlo in coro veniva male, immagino, visto che ho sentito solo la mia voce.

E ripeto, finisce che vado a mangiare la pizza. Con Raffaella, che quando ha scritto il suo primo romanzo non l’hanno voluto vendere nelle librerie della sua città perché parlava di precariato al Sud, con Alessandra e Salvatore che a Londra sono dei signori architetti, a Napoli dovevano correre dietro ai baroni che li sfruttavano.
Pizza e foto al centro antico. Buongiorno, siamo i trentenni traditi da Napoli. Per un pomeriggio la trattiamo come i turisti, immaginando che sia solo presepe, caffè, basolato e margherita.

Quello strano gioco di trarre lezioni universali da piccole vicende

Venditore
Almanacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi. Bisognano, signore, almanacchi?
Passeggere
Almanacchi per l’anno nuovo?
Venditore
Si signore.
Passeggere
Credete che sarà felice quest’anno nuovo?
Venditore
Oh illustrissimo si, certo.
Passeggere
Come quest’anno passato?
Venditore
Più più assai.
Passeggere
Come quello di là?
Venditore
Più più, illustrissimo.
(dalle Operette Morali, G. Leopardi)

Mi si è scassata la suola di una scarpa (sì, l’avevo già scritto). Si è spaccata in due, io manco ci avevo fatto caso, poi a guardare meglio, la crepa si è  creata tra un materiale e l’altro della costosa calzatura hi-tech.  Per quello strano gioco molto in voga, di trarre lezioni universali da piccoli fatti quotidiani, mi è venuto da pensare che quest’anno è stato proprio come la suola della scarpa: una crepa tra fatti inconciliabili. Due materiali differenti hanno sempre bisogno di “qualcosa” per legare. Una colla, del calore. Ho capito che è proprio così: se fra le cose che ti interessano non ci metti qualcosa di tuo non riesci a legare nulla.

Questo è stato l’anno di tanti fatti, alcuni davvero non belli, ma «pure questo l’avete già detto» direbbe Concetta Cupiello. Però ho imparato. Il valore della riconciliazione, ad esempio. Recuperando tempo perso per tante cose, ho tolto delicatamente il sale da tante ferite e le ho sanate. Bene. Non è tutto tranquillo, non tutto è risolto. Vedremo.

Un’altra grande scoperta di quest’anno è che la gente non è poi tanto imprevedibile, anzi. Che la delusione non dipende da quanto ti aspettavi succedesse ma da quanto non t’aspettavi che accadesse. Ho imparato a non farmi toccare dai complimenti; sto cercando di ridurre l’ego ad una piccola pietra che non pesa. Chissà se quest’anno riuscirà a farmi diventare davvero zen.
Io ho dalla mia una presenza straordinaria, fatata, capace di indicarmi la strada come solo lei sa.

Insomma: che finalmente non si debba citare più “Mellonta Tauta” di Stefano Benni  con malinconia, facendo la conta dei sommersi e dei salvati. Non più rivangare i bei tempi andati o lasciarsi confondere dalle convinzioni espresse a mezzo monitor. Ma raccontare senza arroccarsi, restando per strada. E continuare a costruire la vita, a mani nude, come un gigantesco Lego colorato.

Buon anno nuovo.

«Ma non sono io, sono gli altri»

E al fin della licenza io non perdono e tocco

Dice Mario il barbiere guardando le due strisce bianche che mi sono venute ai lati: «guaglio’ , tu pure stai facenno ‘e capille janche». Sorrido perché ho sempre voluto qualche capello bianco, non ho mai pensato fossero da vecchi. Da quando ho sentito la storiella secondo cui ad ogni spavento o dispiacere corrisponde un ciuffo canuto in più, li considero tipo un premio di resistenza. Quest’anno è stato così. Guardarsi e non vedere niente, farsi guardare e scoprire dagli altri. Non mi ero nemmeno accorto che una delle mie scarpe aveva la suola spaccata : nessuno si guarda le scarpe per capire quant’ha camminato. Nemmeno un giornalista senz’auto.

Mi sono avvicinato all’oroscopo non perché ci credessi, ma perché ero affascinato dalla scrittura di alcuni astrologi. Dicevano che questo sarebbe stato il mio anno, ma ignoravano il fattore fedeltà. L’anno mi ha tradito, ha tradito la convinzione che un buon anno dovesse essere di sola serenità. Io ho tradito lui e rinnegato gran parte di quello che mi circonda. Anzi, se ci penso bene, ho tradito e rinnegato un poco tutti. Non è buono nè etico dirlo ma fatti i conti, non mi dispiace.
Ora non sono a casa mia, però lì ho lasciato una montagna di giornali ripiegati, gran parte dei libri consultati per la tesi di laurea questa primavera. Ci sono mischiati biglietti di auguri e telegrammi di condoglianze, due bollette da pagare (devo pagarle e me lo sono appena ricordato!) e un decreto di cassaintegrazione fotocopiato, spiegazzatissimo perché tenuto in una tasca di giacca tra Roma e Napoli, spiegato ai colleghi e mostrato agli amici come una nuova carta d’identità.

Non è andata male, mi ripeto.

Ci sono  delle cose che ciclicamente indicano il cambiamento. L’ultima volta che ho perso conoscenza è stato più o meno cinque anni fa; siccome o faccio le cose in grande o niente, a riprendere il tutto c’era la telecamera di un regista che era lì con me per un documentario sul giornalismo.  Tutto mandato in seconda serata su Raitre. Fantastico. Il giorno dopo, in piazza del Gesù estranei che mi riconoscevano e chiedevano: «ma mo? Stai ‘bbuono?». Qualche mese dopo andai via dal giornale per il quale lavoravo e iniziai una avventura che si è conclusa di recente. A quello ho pensato quando, qualche giorno fa, mi sono trovato a terra nel cesso di casa, dopo essermi fatto la più classica delle domande: «ch’è successo?». Ecco, subito dopo ho pensato: questo è il momento che si spariglia tutto un’altra volta. Ci ho scherzato tanto, dicendo di aver visto una luce bianca e di fronte il direttore del quotidiano d’oltretomba che mi chiamava: vieni, vieni; se è il paradiso è un contratto a tempo indeterminato, se è l’inferno è un co.co.co  con la redazione all’ora di chiusura.
Fortunatamente non era niente.
Poi un poco me ne pentivo di quel sorriso, quando dopo qualche giorno, ho visto una persona cara chiudere gli occhi, per sempre. Abbiamo coperto tutti gli specchi con lenzuola, dice che se lo specchio riflette il volto di un morto l’anima non si libera. Una notte gelida, io restavo sulla soglia e pensavo alla Guerra mondiale, alle storie che mi hanno raccontato, papà che scappava col pane e nonna che cercava abilmente di eludere i limiti della tessera annonaria che calmierava tutto, per sfamare dieci figli.
Una storia di resistenza cittadina, una storia bella, peccato averla ascoltata solo oggi.

Però. Quest’anno ho camminato lungo un sentiero a strapiombo sul mare, io che soffro di vertigini e la stessa vertigine mi è venuta quando ho dovuto illustrare la tesi di laurea, quando ho urlato in pubblico per i colleghi e giù applausi. Quando siamo saliti in un vicolo e abbiamo aperto in fretta e furia, coi vigili che si preoccupavano, la casa di un boss che ora andrà a noi, coordinamento giornalisti precari.
Ho scritto, tanto.  Superata la differenza di stesura del pezzo per un giornale piccolo e  per un giornale grande, recuperato il senso del reale: raccontare da casa cancella il contatto con la strada, aumenta la boria. Scendi: poi buttare giù un pezzo sarà come scaricare una molla. Alla gente dobbiamo solo quel poco che riusciamo a raccattare per denudare i potenti, null’altro, il resto è sovrastruttura e vanità. Riscoperto il piacere di battere sulla tastiera da un bar, devo prendere il decaffeinato, ma vabbè.

Scorrono le facce, il tormentone della Smemoranda gialla di quando andavo a scuola: amici e nemici. Qualche settimana fa una voce straniera e una faccia vagamente familiare mi hanno riportato indietro di una quindicina d’anni. Una strada malamente asfaltata, di fronte il rione Siberia e un palazzone color rosa depresso: tecnico industriale statale. Sentirsi una merda, quando l’ex compagno di scuola si rivolge con distacco perché stai col blocchetto in mano e lui è nelle liste dei disoccupati indultati. Ma ti ricordi di me? Io mi facevo, tu no. Come Schizzechea di Pino Daniele. Pasca’, ‘o posto tuoio ce putevo sta io.

Dovevo recuperare dei rapporti, ci sono riuscito in parte. Non siamo più ragazzini e non si può più ricucire uno strappo col rammendo d’una idea entusiasmante o con la pezza d’una passione condivisa. Ho scoperto che è vantaggioso far parlare gli altri, ma continuo ad usare la tecnica ecce homo mostrando il fianco. Vedi, il guaio è che non siamo Sun Tzu e l’arte della guerra sarà vantaggiosa ma non fa bene allo spirito. Trovata comprensione in certi e incredibile durezza in altri. Bruttissimo è quando dopo un’arrabbiatura terribile ti accorgi che non solo non ti interessa più l’argomento ma nemmeno la persona che lo espone. Niente, come spegnere un interruttore.

Non c’è una morale nè un finale, è una cronaca minima – e inutile – di quanto accade qui, dove pure Cristo si fermò, probabilmente sorrise e si chiese il perché di tanto ritardo del suo Intercity Plus, pagato 8 euro per ottanta chilometri in 70 minuti. Continuo a macinare fatti e storie, ho una cartellina piena di appunti che lievita  a dispetto della pigrizia, fuori piove e forse per la prima volta nella mia vita rimpiango l’estate e quel cielo d’Irlanda che è proprio vero, cambia veloce come dice la bella canzone.