Casomai vi chiedeste il perché di un coordinamento dei giornalisti precari della Campania

C’è un mio omonimo, proprio nome e cognome uguali, che si è ammazzato, qualche mese fa: aveva per l’ennesima volta perso il lavoro. Ci ho pensato spesso negli ultimi mesi, quando, nell’imbarazzante egosurf, è capitato che mi cercassi su Google. Cercare se stessi, trovare il nome uguale e una vita diversa. Ma cosa l’ha resa diversa?

A volte ci si sente come Hurricane, il pugile di Bob Dylan finito in galera per un omicidio che non aveva mai commesso. Dopo anni viene liberato, but one time he could-a been the champion of the world. Nel lavoro giornalistico sempre più spesso succede così: arrivi anche a raggiungere risultati considerevoli, poi qualcosa va male. Potevi diventare, uno su mille ce la fa eccetera eccetera.

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Fino a qualche anno fa, ma quando ho cominciato io già la pratica stava andando in disuso, il collega inquadrato con solido contratto, ti lasciava qualche briciola (uffici stampa) e ti insegnava qualcosa. Eri nel suo vivaio? Bene, potevi crescere e forse trovar spazio in redazione. Altrimenti ti guardavi intorno. Beh, ora è fantascienza. Ora ci sono le scuole di giornalismo e quando va male, certi corsi che ti fanno pagare 3mila euro per illuderti di esser diventato il Montanelli del vicolo o l’Enzo Biagi del condominio.

In tutto questo, quando ho deciso di far parte del Coordinamento giornalisti precari e freelance della Campania mi sono subito sentito dire che non era una buona idea: chi ha un contratto è sano, non dovrebbe mischiarsi con gli appestati. Cioè ero un fesso. Però – ho pensto io –  quel giorno di luglio che ero in piazza Municipio e da una telefonata seppi che il mio giornale era andato a puttane, avrei voluto qualcuno con cui confrontarmi.  E poi – ho pensato ancora . era venuto il momento di fare qualcosa.
Dunque abbiamo rimesso nell’agenda di un sindacato campano troppo distratto il termine “precariato”. La nostra battaglia va avanti da sei mesi circa,  qualche giorno fa del caso  si è occupato con la consueta puntualità Il Fatto, unico giornale d’Italia che ha ricordato l’anomalia Campania.
Io non ne ho scritto solo perché volevo aver tempo per trattare qui la parte più “personale” e lasciare invece su sito del Coordinamento e su Facebook la promozione delle nostre attività. Abbiamo una sede, avremo presto uno sportello per i colleghi e tante altre iniziative. Venerdì scorso c’è stata una assemblea pubblica, la seconda da febbraio ad oggi. Alessandro Di Rienzo, collega dell’agenzia Ami ha ripreso due momenti importanti del coordinamento: la scelta del simbolo e l’evento di venerdì scorso, tutto incentrato sulla formazione-truffa e certi vergognosi pseudo corsi di giornalismo.

Il simbolo è molto semplice e bello (l’ha disegnato Lino aka Linux). E’ la Mehari di Giancarlo Siani: su quell’auto Giancarlo andava in giro per cercar notizie, su quell’auto Giancarlo  è morto. E noi idealmente siamo tutti su quell’automobile.

Fidel ‘o milionario e il giornalista tout court: piccola rassegna

«Secuestro estilo camorra», rapimento in stile camorristico: così scrive la blogger cubana Yoani Sanchez, quando racconta di esser stata rapita. Dice che ha pensato a “Gomorra”, mentre accadeva. Faccio mente locale: in “Gomorra” non mi pare vi fossero rapimenti. E la camorra  (che di azioni ne genere ne conta tante quante sono le dita della mano destra di Muzio Scevola) più che rapire i giornalisti – di blogger finora fortunatamente non si è occupata – li uccide.

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Su La Stampa, il Meridiano Mondadori dedicato al giornalismo e alle grandi firme del ‘900 è letto e giudicato «da laureandi o neolaureati in storia del giornalismo dell’Università di Torino». Ci sono anche articoli di Giancarlo Siani. Il commento di una studentessa sul giornalista ucciso dalla camorra è il seguente:

Non so se il giornalismo di denuncia debba far parte del giornalismo tout court. Ci sono tanti modi di svolgere la professione. Tendo a pensare che quella di Siani, e di altri giornalisti come lui, sia una coraggiosa, eccezionale scelta personale.

No, cara aspirante collega, non penso che Siani avesse scelto il settore “giornalismo eroico da ammazzare”, sai.

Giancarlo Siani, cinquant’anni fa

GiancarloSiani«Erano più colorate le strade di Napoli, più ricche di bancarelle improvvisate di chioschi di acquaioli, più affollate di gente aperta al sorriso». Così Eduardo  De Filippo ricordava Totò, il giorno in cui il “Principe della risata” morì.

Che Napoli era il giorno in cui nacque Giancarlo Siani? Quella del giorno in cui morì la ricordiamo meglio, perchè le brutte immagini restano, eccome, nella memoria: la Mehari, piazza Leonardo, la prima pagina del Mattino e le foto in bianconero di un giovane giornalista con la camicia, la fila di lato e gli occhiali tondi.

Giancarlo Siani nasceva nel 1959: se la camorra non l’avesse ammazzato,oggi avrebbe cinquant’anni e quattro giorni. Invece è morto quattro giorni dopo il suo ventiseiesimo compleanno. Nacque negli anni del boom, quando tutto sembrava possibile e i nuovi nati parevano destinati a grandi cose, sicuramente migliori di quelle dei genitori che avevano avuto a che fare coi bombardamenti, il dopoguerra, la fame. Ma era al tempo stesso anche una città come quella magistralmente descritta da Eduardo, nel suo “Sindaco del rione Sanità”. La Napoli degli Antonio Barracano, degli uomini “di rispetto” col loro mondo e le loro regole, diverse da quelle dello Stato. Regole che sarebbero diventate sempre più opprimenti, pesanti. Poi i Settanta, gli Ottanta fino ad oggi. Per Giancarlo Siani la vita è finita nel 1985.

Se non fosse accaduto?

Oggi avremmo forse avuto un giornalista professionista con alle spalle anni di gavetta. Tra Vomero e Torre Annunziata. Disilluso, probabilmente, ma con un poco di speranza nei giovani. Avrebbe di sicuro anch’egli affrontato le varie crisi dei giornali così come li aveva conosciuti agli inizi: l’addio al piombo, le nuove frontiere di internet. Gli sarebbe piaciuto, probabilmente, scoprire in quanti ancora amano questo mestiere. E forse tra le pubblicazioni oggi avremmo anche il suo libro su Torre, le cui bozze misteriorsamente sparirono dopo la sua morte.

Infarcire un periodo di “avrebbe” destabilizza: troppi dubbi in così poche righe. È solo perchè nessuno può saperlo con certezza: Giancarlo Siani è stato ammazzato e oggi, anziché i suoi cinquant’anni, ci ritroveremo ancora una volta a chiederci com’è potuto accadere e a prometterci che no, non dovrà mai più succedere.

E io ti seguo. A Fortapàsc

Ho visto “E io ti seguo” e “Fortapàsc” a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Però prima di iniziare a parlarne, vorrei soffermarmi sulle locandine. Quella del film di Maurizio Fiume ha un inciso, che il Giancarlo Siani del suo film ripete ad un collega: «Io non voglio conoscere la verità, ma mi piacerebbe poterla scrivere». Una frase paradossale (come si può scrivere senza conoscere? È forse un accenno alla scrittura inconsapevole di fatti che portarono Siani alla morte?); una frase che però mette la scrittura al centro di tutto.  È su sfondo rosso, il Siani di “E io ti seguo” sembra una icona di Che Guevara.
La locandina del film di Marco Risi è invece diversa in tutto e per tutto. Colori di guerra – dominano i toni “militari” – e il Siani di Fortapàsc è raffigurato con la bocca  cancellata. Questa cosa mi ha molto colpito. È davvero il simbolo-bocca che con un omicidio, la camorra ha voluto cancellare. Quello che diceva, non quello che scriveva? Facile a dire “era la cosa più d’impatto”. Eh no, secondo me c’è tutta una idea.

Si potrebbe scrivere a lungo della mancata distribuzione del film di Fiume e dei problemi di finanziamento di quello di Risi; fatto sta che l’uscita di quest’ultimo ha determinato – almeno a Napoli, grazie ad un mensile,  Chiaia Magazine, che l’ha allegato all’uscita di marzo – il rilancio del primo lungometraggio sulla vita e sulla morte di Giancarlo Siani. Sono andato a vedere “Fortapàsc” col pregiudizio di chi vedeva dietro una operazione commerciale e dei “professionisti dell’antimafia”. Mi dispiace dirlo, ma questo pensavo, ora penso semplicemente che va visto, che è una pellicola assolutamente degna di esser vista. Così come bisogna però vedere “E io ti seguo”.
“Fortapàsc” restituisce una immagine sceneggiata, romanzata (il tuffo nudi dallo scoglio, certi dialoghi improbabili col capo della redazione del Mattino a  Torre Annunziata) che, associata ad una colonna sonora degna del Risi “re” degli anni Ottanta, imprimono ben bene l’immagine romantica del giovane giornalista indomito. Quello che va a bussare alla porta del villone del sindaco o che trova sotto il garage di via Morelli il pretore che gli da’ i documenti – una scena che è un chiaro omaggio a “Tutti gli uomini del presidente” -.
Napoli è ricostruita bene, però secondo me il film s’incarta quando deve spiegare cos’è successo a Giancarlo Siani. Il passaggio da Torre a Napoli e le settimane che precedettero la morte del giovane giornalista napoletano sono spiegate col timore di chi aveva paura  di toccare i tanti punti oscuri di quella vicenda (il libro-dossier di Siani;  l’agenda sparita; il ricorso ad un agente di polizia per chiedere protezione; l’ombra di strani movimenti ne “Il Mattino” di quegli anni). Manca totalmente il dopo omicidio, nel film di Risi. Cos’è successo immediatamente dopo l’omicidio ovvero la battaglia per far aprire il giornale con la notizia dell’agguato. Una vicenda – quest’ultima, insieme a tante altre – magistralmente raccontata da Antonio Franchini nel libro “L’Abusivo” edito da Marsilio e recentemente ristampato in edizione economica (peccato che con la fascetta “a questo  libro è ispirato “Fortapàsc”: in realtà “L’Abusivo” ha ispirato molto più il lavoro di Fiume). Insomma, “Fortapàsc” sembra un poco  come quei film americani che raccontano la vita di una principessa mantenendo le cose salienti ma lavorando di sottrazione. E di somiglianze: ci sono  almeno 4 attori già visti in “Gomorra” di Matteo Garrone (più il direttore della fotografia).
Però la scena finale –  totalmente inventata ma estremamente simbolica – vale da sola il prezzo del biglietto.

L’uscita di “E io ti seguo” penso sia stata l’ultima occasione in cui la consulta del sindacato dei giornalisti della Campania si sia riunita per parlare di qualcosa. E infatti si riunì per sconfessare la ricostruzione del film, assolutamente malvisto dal Mattino e dalla famiglia di Siani. In verità tutto quello che esce dal film di Maurizio Fiume, scaturisce dagli atti giudiziari – almeno a quanto mi è parso -. Dunque non capisco il perché di quest’atteggiamento, ma proprio perché non mi sono note le ragioni profonde, lo rispetto. Per me il pregio del lavoro di Fiume è stato quello di andare più a fondo sul versante della ricostruzione, non mettendo un velo sul contesto, sui documenti – le lettere di Siani ad una amica, le deposizioni dei pentiti -. Detto questo, è innegabile che il costo di produzione dei due film (5 milioniè costato quello di Risi, meno di un decimo di quello di Maurizio Fiume) traccia un solco enorme sugli attori, sulle location, sulle riprese. Però Fiume anche se è più “lento” riesce a non essere eccessivamente pesante o narrativo, lascia spazio alle immagini.
Io sono stato contento di averli visti entrambi a distanza ravvicinata, sul fronte narrativo mi sono sembrati l’uno il complementare dell’altro. Vi invito a fare altrettanto.