Il senso di un giornalista cassintegrato

Torno da Roma. Questo non è il treno che corre. Non riesco ad apprezzare abbastanza la poesia del viaggio slow, vorrei schizzare da un punto all’altro e vedere paesaggi veloci e immobili dal finestrino o non vedere nulla.

Sono stato due anni in cassa integrazione.
Se non sai cos’è: si tratta di quella specie di “aiuto” che hai quando non hai perso proprio il lavoro ma quasi. Si chiama ammortizzatore sociale: cadrai ma avrai un paracadute.
Ti racconto il volo, peró.

È durato 24 mesi, il volo: non ne vado fiero, dover compilare ogni volta un modulo mi faceva sentire come quando, molti molti anni fa, accompagnavo mio padre al collocamento di Napoli. Ovviamente il collocamento di Napoli non l’hai mai collocato, quel che ha fatto negli anni a venire l’ha fatto da solo senza l’aiuto di nessun carrozzone di Stato. Però all’epoca doveva mettere un timbro su una scheda bianca. Tornava a casa e il timbro serviva a qualcosa. Ammortizzatore sociale pure per lui. Non mi fa piacere aver fatto la stessa fine.

È colpa nostra, papà? Non abbiamo lavorato bene?
Dovevamo fare altro nella vita? Né a me né a te sono mancate le possibilità: al Rione Sanità in Napoli in ogni tempo qualcuno ha avuto bisogno di ‘guaglioni’. E qualcuno ce l’ha chiesto. Io ricordo perfettamente quando l’hanno chiesto a me. Raffaella anni dopo mi ascoltò e rubò quell’episodio che è diventato un pezzettino del suo primo libro.

E allora? Sbagliammo a non fare i furbi? Sbagliamo ora nel compiacerci di non essere stati strumento di qualcuno?
La cassa integrazione non è una cosa che mi immaginavo di subìre. In fondo sono soldi senza che tu faccia niente. Peró poi ho capito che in quel niente paghi il prezzo. Sei un niente sociale. Apparentemente hai tutto intorno a te. Nei fatti diventi una balla di carta riciclata. Già scritta, rilavata. Nobile negli intenti e nel vissuto ma grigia e ruvida. Aspetterai una nuova scrittura e non sarà mai più la prima volta. Perso l’entusiasmo e la fiducia. Come foglio scarabocchiato, appunto. Spererà ancora di diventare il testo di una lettera, d’una poesia?

Prendo alla lunga il discorso e il treno informa che siamo arrivati a Latina. Canne di bambù alla mia destra. Riusciremo mai ad uscirne? La cassa integrazione è un fatto collettivo ma diventa il problema di un singolo una volta espletate le formalità di rito. Procedura al ministero del Lavoro in via Fornovo, Roma. Anticipo cassa dell’Istituto di previdenza sociale. Decreto del ministero in Gazzetta ufficiale. E poi siamo soli.

Se hai cinquant’anni è tragica: sei uscito dal mondo del lavoro, difficilmente ci rientrerai. Se ne hai trenta è ridicola: ti illudono che sei dentro ancora, che è solo una fase. Ma non è così: ne sei fuori e brucerai anni per conoscere il tuo futuro.

Per un giornalista cosa significa stare “in cassa”? Fermarsi ad aspettare? Aspettare cosa, se questo mondo è fluido, veloce arrabbiato e non tollera, no, che tu te ne stia in disparte, ha bisogno di tenerti e tritarti più volte. Fermarsi significa appassire. Si cerca lavoro. Si trova ciò che si ritiene inaccettabile (ed è ovvio, si viene da un contratto a tempo indeterminato). Inaccettabile è aprire una partita iva senza poter contrattare il compenso del proprio lavoro. Inaccettabile è stare come i cuccioli di cane famelici intorno alla mamma aspettando che si liberi una mammella e che ce ne sia un poco per te.
Si finisce con l’apprezzare il far nulla che è esso stesso più guadagno del far qualcosa con affanno ma con compenso da fame che a stento bilancia l’investimento lavorativo.

Se ne desume la necessità d’una profonda riforma dello strumento.
Se ne deduce che questi due anni sono stati difficili. E non è finita.

Più di mezzo miliardo di ore di cassa integrazione negli ultimi sei mesi. Al giro di boa del 2012, il bilancio sulla richiesta di ore di cig si fa sempre più pesante, collocando in cassa a zero ore oltre 500.000 lavoratori con un taglio del reddito per oltre 2 miliardi di euro, quasi 4.000 euro per ogni singolo lavoratore. Questa la fotografia della crisi di imprese e occupazione in Italia scattata nel rapporto di giugno dell’Osservatorio Cig della Cgil Nazionale, in cui sono stati elaborati i dati rilevati dall’Inps. ANSA.

Stampa gratuita, ma l’informazione ha sempre un costo e un valore

Nel treno per pendolari, su cui salgo la mattina per recarmi al lavoro, l’unico, o quasi, a leggere un giornale comprato all’edicola sono io.

Così inizia un interessante articolo dello scrittore e saggista Marco Belpoliti su La Stampa incentrato sui quotidiani free press in Italia. Al di là di una realtà («la free press è in crisi») e di un bel passaggio su EPolis, il giornale cui sono ovviamente legato («EPolis, che probabilmente è stato il più innovativo nella scrittura giornalistica..) Belpoliti sostiene una tesi in parte vera, circa la  particolare tipologia di diffusione dei giornali gratuiti e certi loro inconsapevoli  “meriti” :

La free press è un fenomeno che occupa le prime ore del mattino. Nei luoghi più frequentati della città un folto numero di extracomunitari distribuisce i giornali davanti alle stazioni dei treni e del metrò, nei piazzali dei pullman e nelle strade più frequentate. I lettori sono quasi tutti pendolari, per la maggior parte immigrati. Si tratta di fogli ricchi di pubblicità: piccola pubblicità locale che non entra nei giornali maggiori o nelle riviste, perché troppo costosi. Sono letti da un pubblico poco acculturato, con consumi orientati verso i gadget e gli oggetti di largo consumo. Tuttavia un merito la free press l’ha, e davvero grande: ha insegnato l’italiano agli immigrati. Nel corso dell’ultimo decennio i principali lettori sono stati peruviani, ecuadoriani, colombiani, romeni, albanesi, polacchi, ovvero molte delle nazionalità arrivate in Italia. Forse bisognerebbe pensare di dare un premio speciale alla free press: sono stati il maestro Manzi della nuova alfabetizzazione all’italiano. Non è mai troppo tardi, come si chiamava la trasmissione televisiva di Manzi. Anche con la free press.

Il riferimento al celebre “maestro della tivvù” che attraverso il mezzo televisivo contribuì non poco ad unificare il linguaggio dell’Italia dei cento dialetti è sicuramente bello. E parte da un dato vero, cioè quello della stampa gratuita sempre più vicina ai gusti degli immigrati: se n’è accorta già da tempo la pubblicità, tant’è  che spesso i quotidiani gratuiti ospitano ad esempio inserzioni di operatori di telefonia mobile italiani, ma scritti in lingua straniera e con offerte per contattare ad esempio il Nordafrica o l’India o l’Est Europa.
Ma questo basta a far considerare i giornali gratuiti un fenomeno legato solo agli immigrati: li leggono loro, giusto perchè sono gratuiti? Secondo me no ed è l’errore commesso da Belpoliti: non aver colto in pieno ciò che è accaduto in questi anni, in particolare con l’avvento di una certa free press di qualità, non certo «fogli ricchi di pubblicità» (magari fosse stato così…). Secondo me nel suo treno, Belpoliti avrebbe dovuto chiedere ai compagni di viaggio la nazionalità. Avrebbe appreso che sono per lo più italiani: il mercato degli immigrati è sì in aumento ma non certo predominante.

Altra questione. La stampa gratuita, mi riferisco soprattutto a quello che per 4 anni è stato EPolis, ha preso il posto di molti giornali di cronaca locale, ha ricostruito un legame tra il lettore e il “suo giornale”, distrutto negli anni dalla corsa ai contenuti nazionali, al web più 2.0, alle sinergie fra testate dello stesso gruppo allo scopo di contrarre i costi il più possibile.
Come? Con un impianto grafico agile, con pezzi non superiori alle 45 righe, fotografie usate non come riempitivo ma come elemento della notizia, titoli a due righe con occhiello e un sommarietto, dunque capaci di spiegare bene una notizia, senza ridurla a stupidi calembour.

Avendo lavorato per un decennio in piccoli giornali definiti con epiteti tipo «giornalaccio»; «giornaletto»; «giornale scandalistico» eccetera, non sopporto poi quando si definisce un giornale «minore». È ovvio che se definisci – l’articolo di Belpoliti lo fa  un giornale «maggiore» è perché pensi ve ne sia un altro di segno opposto. Non è solo orgoglio, ma l’idea insopportabile che noi del «giornaletto minore» magari non ci prendiamo le responsabilità come «quelli grandi».
Eh no. Se il maestro Manzi aveva la bacchetta e la lavagna ma per finta, per ricreare un ambiente scolastico negli studi televisivi, chi ha scritto su un giornale quotidiano sa bene che le necessità, i rischi, le possibilità di trovare notizie buone. E soprattutto sa bene che si può fare informazione.  Informazione di servizio? Sì, ma è affatto una funzione secondaria rispetto a quella delle testate principali, zeppe di editorialisti e di lenzuolate sulla politica  nostrana, ormai illegibili.

Quando fuori è mattina presto

«Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te
»

L’alba dei giornali è puro petrolio. Composizione, stampa e diffusione bevono benzina, in quella fase nessuno pensa a quello che un pugno d’ore prima ci è voluto per scrivere gli articoli: un altro miscuglio esplosivo e instabile di notizie, velocità, necessità, disperazione, spesso pagato meno di dieci litri di carburante. Ma questa combustione è il miracolo che si compie ogni giorno, la scintilla dell’informazione dura poco ed è bella, l’energia che produce ha alimentato e alimenta ogni mia giornata da dodici anni.

Il giornale è il calabrone che ignaro di tutto – o forse a dispetto di tutti – vola.

Capisci quindi che non è una tragedia, se per qualche motivo non vola più. Non sembrava eterno quando iniziò. Però è stato brutto quando se finì.
Mettici anche che il giornalista è l’unico professionista al mondo cui si chiede di risolvere anche i problemi del suo datore di lavoro. Sulla crisi dell’editoria il cronista si arrovella, più che il metalmeccanico sulla crisi dell’auto o il camallo su quella dei container. Forse ci si illude che il miscuglio di parole, il quotidiano gioco di carta possa sciogliere nodi o piallare vertenze.
Non è così, e l’avevo capito qualche anno fa, stavolta mi è stato chiaramente ribadito dai fatti, da quel muro a cento chilometri all’ora che abbiamo impattato in centoventisette, penso si tratti della più grave crisi dell’editoria italiana  da dieci anni a questa parte.

Eppure dopo il rompete le righe c’è stata una serata bella come è bello uscire da un cunicolo. Una piazza romana poco illuminata, il rumore dei ristoranti. C’eravamo noi, gli sconfitti a prescindere, quelli che il giornale l’hanno solo scritto, con i nostri dieci dialetti e un mestiere da amico fragile.
Ci sarà – perchè ci sarà – una soluzione. Non sarà indolore. Ci saranno iniziative, solidarietà e prese di posizione com’è già accaduto. Ma soltanto chi è stato a quel desk, chi ha vomitato paginate tra le quattro mura di casa, i pannolini dei figli, il ragù della domenica, i ventilatori scassati e  gli appunti dispersi ma-ti-giuro-che-erano-qui, ha potuto capire come stava morendo la grande scommessa di mettere in rete centinaia di giornalisti e cercare di cavarne ogni giorno qualcosa di buono. Alla fine il gioco del giornalista telelavoratore si è smantellato, ma più per incuria che per altro. Quel bellissimo bonsai è stato trattato come una gramigna qualunque. Chissà se e  quando sapremo chi in E Polis ha falciato il grano e lasciato le erbacce.

Web-tv, ancora tu

Alla fine la storia della web-tv del Comune di Napoli, raccontata all’inizio di quest’anno, si è evoluta.
Zitto zitto, il Comune ha nominato alla direzione editoriale, un ex giornalista Rai. Un bravissimo professionista che nulla però sa di web-tv, internet, eccetera eccetera.
No. Non è un paese per giovani.