Stampa gratuita, ma l’informazione ha sempre un costo e un valore

Nel treno per pendolari, su cui salgo la mattina per recarmi al lavoro, l’unico, o quasi, a leggere un giornale comprato all’edicola sono io.

Così inizia un interessante articolo dello scrittore e saggista Marco Belpoliti su La Stampa incentrato sui quotidiani free press in Italia. Al di là di una realtà («la free press è in crisi») e di un bel passaggio su EPolis, il giornale cui sono ovviamente legato («EPolis, che probabilmente è stato il più innovativo nella scrittura giornalistica..) Belpoliti sostiene una tesi in parte vera, circa la  particolare tipologia di diffusione dei giornali gratuiti e certi loro inconsapevoli  “meriti” :

La free press è un fenomeno che occupa le prime ore del mattino. Nei luoghi più frequentati della città un folto numero di extracomunitari distribuisce i giornali davanti alle stazioni dei treni e del metrò, nei piazzali dei pullman e nelle strade più frequentate. I lettori sono quasi tutti pendolari, per la maggior parte immigrati. Si tratta di fogli ricchi di pubblicità: piccola pubblicità locale che non entra nei giornali maggiori o nelle riviste, perché troppo costosi. Sono letti da un pubblico poco acculturato, con consumi orientati verso i gadget e gli oggetti di largo consumo. Tuttavia un merito la free press l’ha, e davvero grande: ha insegnato l’italiano agli immigrati. Nel corso dell’ultimo decennio i principali lettori sono stati peruviani, ecuadoriani, colombiani, romeni, albanesi, polacchi, ovvero molte delle nazionalità arrivate in Italia. Forse bisognerebbe pensare di dare un premio speciale alla free press: sono stati il maestro Manzi della nuova alfabetizzazione all’italiano. Non è mai troppo tardi, come si chiamava la trasmissione televisiva di Manzi. Anche con la free press.

Il riferimento al celebre “maestro della tivvù” che attraverso il mezzo televisivo contribuì non poco ad unificare il linguaggio dell’Italia dei cento dialetti è sicuramente bello. E parte da un dato vero, cioè quello della stampa gratuita sempre più vicina ai gusti degli immigrati: se n’è accorta già da tempo la pubblicità, tant’è  che spesso i quotidiani gratuiti ospitano ad esempio inserzioni di operatori di telefonia mobile italiani, ma scritti in lingua straniera e con offerte per contattare ad esempio il Nordafrica o l’India o l’Est Europa.
Ma questo basta a far considerare i giornali gratuiti un fenomeno legato solo agli immigrati: li leggono loro, giusto perchè sono gratuiti? Secondo me no ed è l’errore commesso da Belpoliti: non aver colto in pieno ciò che è accaduto in questi anni, in particolare con l’avvento di una certa free press di qualità, non certo «fogli ricchi di pubblicità» (magari fosse stato così…). Secondo me nel suo treno, Belpoliti avrebbe dovuto chiedere ai compagni di viaggio la nazionalità. Avrebbe appreso che sono per lo più italiani: il mercato degli immigrati è sì in aumento ma non certo predominante.

Altra questione. La stampa gratuita, mi riferisco soprattutto a quello che per 4 anni è stato EPolis, ha preso il posto di molti giornali di cronaca locale, ha ricostruito un legame tra il lettore e il “suo giornale”, distrutto negli anni dalla corsa ai contenuti nazionali, al web più 2.0, alle sinergie fra testate dello stesso gruppo allo scopo di contrarre i costi il più possibile.
Come? Con un impianto grafico agile, con pezzi non superiori alle 45 righe, fotografie usate non come riempitivo ma come elemento della notizia, titoli a due righe con occhiello e un sommarietto, dunque capaci di spiegare bene una notizia, senza ridurla a stupidi calembour.

Avendo lavorato per un decennio in piccoli giornali definiti con epiteti tipo «giornalaccio»; «giornaletto»; «giornale scandalistico» eccetera, non sopporto poi quando si definisce un giornale «minore». È ovvio che se definisci – l’articolo di Belpoliti lo fa  un giornale «maggiore» è perché pensi ve ne sia un altro di segno opposto. Non è solo orgoglio, ma l’idea insopportabile che noi del «giornaletto minore» magari non ci prendiamo le responsabilità come «quelli grandi».
Eh no. Se il maestro Manzi aveva la bacchetta e la lavagna ma per finta, per ricreare un ambiente scolastico negli studi televisivi, chi ha scritto su un giornale quotidiano sa bene che le necessità, i rischi, le possibilità di trovare notizie buone. E soprattutto sa bene che si può fare informazione.  Informazione di servizio? Sì, ma è affatto una funzione secondaria rispetto a quella delle testate principali, zeppe di editorialisti e di lenzuolate sulla politica  nostrana, ormai illegibili.

Professione giornalista. Professione?

Alberto Papuzzi ripropone il suo “Professione giornalista” uno dei migliori manuali  italiani su questo mestiere, con una nuova edizione che contiene nuove parti, fra le quali un capitolo sul giornalismo politico e uno sull’informazione online di cui La Stampa anticipa uno stralcio.
A quanto si legge, Papuzzi ha un approccio non certo entusiastico rispetto all’informazione online, parlando di “pregi e limiti”. E discutendo del  “tutti cronisti grazie al web” arriva alla cruciale domanda:

L’affermazione del giornalismo partecipativo sembra portare come conseguenza una concezione del lavoro in cui i professionisti non sono più necessari, perché nessuna testata potrebbe mai avere una copertura pari a quella del reporting diffuso e di base, con presidi sociali garantiti dalle persone che sono naturalmente presenti sui luoghi degli eventi, improvvisamente e inaspettatamente protagonisti. Ma cosa accadrebbe se questa abbondanza di informazioni non venisse selezionata, analizzata, valutata, controllata, decifrata?

La questione è però ancora più intricata: sappiamo che oggi esistono persone che – grazie alla loro presenza sui luoghi – possono assicurare reporting anche senza essere necessariamente giornalisti di mestiere. Il problema, uso le parole di Papuzzi, è se esiste davvero ancora il giornalista capace di “selezionare, analizzare, valutare, controllare e decifrare”. A mio modo di vedere è il progressivo impoverimento degli “spazi di manovra editoriali” del cronista, ad aver determinato lo svilimento del suo ruolo nella società. Poi, Papuzzi non ne parla, i teorici del giornalismo fanno fatica ad affrontare l’argomento, la questione economica fa o no la differenza? Un citizen journalist ad un certo punto mollerà la presa perché deve far altro per portare a casa la pagnotta; un giornalista professionista italiano si venderà al miglior offerente visto che la sola forza delle notizie “selezionate,analizzate, valutate” eccetera, non gli frutta il becco d’un quattrino.

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L’ennesima dark side della Rete

In principio (o almeno lì arriva la mia memoria) erano i muri.
Muri da scrivere, (imbrattare!) con slogan, dichiarazioni di guerra, d’odio e amore. Mi ricordo il popolo dei fax, il popolo degli sms, il popolo dei cellulari. Tutti portatori di rabbia, anche d’odio e  in qualche caso, di sciocchezze clamorose.
Poi è arrivato quello della Rete.
Giorni nostri: l’orrenda, vergognosa vicenda dell’aggressione a Silvio Berlusconi si sta tramutando in qualcosa d’altro. Tralascio chi vorrebbe prendersela con tutti gli oppositori del premier, immaginando una Grande Regia dietro il lancio di una statuetta del Duomo di Milano da parte di un disturbato mentale.  Oggi però Gian Antonio Stella sul Corsera scrive :

Ma davvero «in democrazia un cittadino deve avere il diritto di dire le sciocchez­ze più grandi che crede», come teorizzò nel 2003 l’al­lora ministro della Giusti­zia Roberto Castelli metten­dosi di traverso alla legge europea che voleva ridefini­re i reati di razzismo e xe­nofobia? Roberto Maroni, vista l’immondizia che tra­bocca online a sostegno dell’uomo che ha scaraven­tato una statuetta in faccia a Silvio Berlusconi (c’è chi si è spinto a scrivere: «Gli doveva rompere il cranio a quel testa d’asfalto!») pen­sa di no. E ha ragione.

Così, di fatto, è stato riempito il calderone di insensata zuppa. Una emotività pari che so, a quella per la morte di Michael Jackson o per il televoto del Grande Fratello è stata etichettata come opinione di parte del Paese. O peggio, come incubatore del germe della violenza. Un germe sgradevole, sia chiaro. Ma che rappresenti il sicuro presupposto alla violenza ne siamo proprio sicuri? Il bulletto che scrive sul social network  è lo stesso che tira il sasso, che arma la pistola, che impugna il coltello? Che contribuisce in maniera decisiva al clima d’odio?

Secondo me l’odio ce l’abbiamo intorno. Da sempre. Anzi, ce l’abbiamo  proprio dentro, è la struttura di una società civile che dovrebbe arginarlo, non certo lo spauracchio di improbabili leggi internettiane.
Ma ci rendiamo conto dei toni altissimi di questo Paese negli ultimi anni? A me pare come quello che alza, alza, alza il volume dello stereo e non  se rende conto fino a quando non viene qualcuno dall’altra stanza.
Continuando con questa metafora: imporre lo spegnimento dello “stereo”  ha mai sortito risultati? No, che io ricordi. Scrive proprio ora Raffaele, mio amico, su Facebook: «abbassare i toni sta cambiando significato: prima era un invito, ora pare un comando (sui toni degli altri)». È vero.

Poi un minimo di scontata, banale, prospettiva storica: al Klux Klux Klan non servì un gruppo su Facebook, a Lee Oswald, Yigal Amir, Ali Agca, nemmeno una e-mail. Siamo sicuri che la famosa “spirale dell’odio”  si sviluppa e si avviluppa attraverso la Rete?

Update: non avevo letto l’articolo – di segno opposto rispetto a Stella – scritto da Michele Ainis per la Stampa di oggi:

Lo squilibrato che ha ferito Berlusconi raccoglie 50 mila fan tra i navigatori della Rete. Significa che la Rete è a sua volta squilibrata? Significa che ha urgente bisogno di una camicia di forza, o almeno d’una museruola? Calma e gesso, per favore. E per favore smettiamola d’invocare giri di vite e di manette sull’onda dell’ultimo episodio che la cronaca ci rovescia addosso.


Fidel ‘o milionario e il giornalista tout court: piccola rassegna

«Secuestro estilo camorra», rapimento in stile camorristico: così scrive la blogger cubana Yoani Sanchez, quando racconta di esser stata rapita. Dice che ha pensato a “Gomorra”, mentre accadeva. Faccio mente locale: in “Gomorra” non mi pare vi fossero rapimenti. E la camorra  (che di azioni ne genere ne conta tante quante sono le dita della mano destra di Muzio Scevola) più che rapire i giornalisti – di blogger finora fortunatamente non si è occupata – li uccide.

***

Su La Stampa, il Meridiano Mondadori dedicato al giornalismo e alle grandi firme del ‘900 è letto e giudicato «da laureandi o neolaureati in storia del giornalismo dell’Università di Torino». Ci sono anche articoli di Giancarlo Siani. Il commento di una studentessa sul giornalista ucciso dalla camorra è il seguente:

Non so se il giornalismo di denuncia debba far parte del giornalismo tout court. Ci sono tanti modi di svolgere la professione. Tendo a pensare che quella di Siani, e di altri giornalisti come lui, sia una coraggiosa, eccezionale scelta personale.

No, cara aspirante collega, non penso che Siani avesse scelto il settore “giornalismo eroico da ammazzare”, sai.