Non è poi così lontana Samarcanda

 

Ricordi messi in fila: il mio quaderno delle scuole superiori, annotare le notizie del tg (in pratica giocavo a fare il giornalista e nemmeno lo sapevo). Diciannove anni fa  ed ero un quindicenne che ascoltava. La città oggi stretta e impossibile all'epoca mi sembrava enorme, tutta da scoprire, da leggere e interpretare. La vecchia tv quella sera trasmetteva un telefono che squillava, una redazione schierata e sullo sfondo il cadavere di Salvo Lima: era il periodo delle stragi siciliane e non vollero far andare in onda la trasmissione. Il direttore generale della Rai era Gianni Pasquarelli. È cambiato qualcosa? Dico, è cambiato qualcosa? Io ho i capelli bianchi e faccio il giornalista: a quei tempi guardavo la piazza e il tizio col microfono in mano. Riuscirò a fare le domande come lui? Riuscirò a capire cosa chiedere alla gente? È cambiato qualcosa?

A quella trasmissione ne seguirono delle altre: "Il rosso e il nero", "Tempo reale", "Sciuscià", "Il raggio verde". Cause in tribunale, autorithy, editti bulgari. C'è stata una scuola di cronisti che pur non facendo parte di quei lavori si è formata intorno a quel modo di fare la cronaca e non solo quella televisiva. Coi limiti del populismo e della faziosità ma al tempo stesso il profondo coraggio. Mostrarono ch'era giusto bussare ai citofoni e perseguitare, sì, perseguitare, la gente evasiva, elusiva, i potenti senza risposte alle domande giuste.

Per questo motivo, con tutti i limiti che ti appaiono chiari con l'età e – purtroppo o per fortuna – ti distruggono i miti, ogni volta non posso far a meno di pensare a Libero Grassi seduto sulla poltroncina, a Giovanni Falcone, al cadavere di Salvo Lima e il telefono che squillava provocatoriamente.

A quei tempi molti di noi impararono il giusto dell'indignazione collettiva, anni luce prima di internet, facebook e delle campagne di libertà un tanto al chilo. Imparammo l'opposizione che non si mostrava a casa, a scuola, tra le pagine del giornale della sera. Insomma, ad essere cittadini e uomini mediamente coraggiosi. Poi se qualcuno di noi ha scelto di fare per mestiere quello che racconta le cose, dovrebbe essere ancor più grato. Io sono uno di quelli.

 

Che ti fici, Rete 4, per meritare questa mancanza di rispetto?

Sto riguarando, nonostante il cofanetto dvd, Il Padrino I su Rete 4 e scopro con raccapriccio che il doppiatore di Al Pacino è stato cambiato! Non più Ferruccio Amendola ma un’altra voce, non si sa di chi, un vero strazio. Sono cambiati tutti i doppiatori, Marlon Brando ora sembra una caricatura.

Che strazio, ma chi cazzo l’ha deciso?

Stampa gratuita, ma l’informazione ha sempre un costo e un valore

Nel treno per pendolari, su cui salgo la mattina per recarmi al lavoro, l’unico, o quasi, a leggere un giornale comprato all’edicola sono io.

Così inizia un interessante articolo dello scrittore e saggista Marco Belpoliti su La Stampa incentrato sui quotidiani free press in Italia. Al di là di una realtà («la free press è in crisi») e di un bel passaggio su EPolis, il giornale cui sono ovviamente legato («EPolis, che probabilmente è stato il più innovativo nella scrittura giornalistica..) Belpoliti sostiene una tesi in parte vera, circa la  particolare tipologia di diffusione dei giornali gratuiti e certi loro inconsapevoli  “meriti” :

La free press è un fenomeno che occupa le prime ore del mattino. Nei luoghi più frequentati della città un folto numero di extracomunitari distribuisce i giornali davanti alle stazioni dei treni e del metrò, nei piazzali dei pullman e nelle strade più frequentate. I lettori sono quasi tutti pendolari, per la maggior parte immigrati. Si tratta di fogli ricchi di pubblicità: piccola pubblicità locale che non entra nei giornali maggiori o nelle riviste, perché troppo costosi. Sono letti da un pubblico poco acculturato, con consumi orientati verso i gadget e gli oggetti di largo consumo. Tuttavia un merito la free press l’ha, e davvero grande: ha insegnato l’italiano agli immigrati. Nel corso dell’ultimo decennio i principali lettori sono stati peruviani, ecuadoriani, colombiani, romeni, albanesi, polacchi, ovvero molte delle nazionalità arrivate in Italia. Forse bisognerebbe pensare di dare un premio speciale alla free press: sono stati il maestro Manzi della nuova alfabetizzazione all’italiano. Non è mai troppo tardi, come si chiamava la trasmissione televisiva di Manzi. Anche con la free press.

Il riferimento al celebre “maestro della tivvù” che attraverso il mezzo televisivo contribuì non poco ad unificare il linguaggio dell’Italia dei cento dialetti è sicuramente bello. E parte da un dato vero, cioè quello della stampa gratuita sempre più vicina ai gusti degli immigrati: se n’è accorta già da tempo la pubblicità, tant’è  che spesso i quotidiani gratuiti ospitano ad esempio inserzioni di operatori di telefonia mobile italiani, ma scritti in lingua straniera e con offerte per contattare ad esempio il Nordafrica o l’India o l’Est Europa.
Ma questo basta a far considerare i giornali gratuiti un fenomeno legato solo agli immigrati: li leggono loro, giusto perchè sono gratuiti? Secondo me no ed è l’errore commesso da Belpoliti: non aver colto in pieno ciò che è accaduto in questi anni, in particolare con l’avvento di una certa free press di qualità, non certo «fogli ricchi di pubblicità» (magari fosse stato così…). Secondo me nel suo treno, Belpoliti avrebbe dovuto chiedere ai compagni di viaggio la nazionalità. Avrebbe appreso che sono per lo più italiani: il mercato degli immigrati è sì in aumento ma non certo predominante.

Altra questione. La stampa gratuita, mi riferisco soprattutto a quello che per 4 anni è stato EPolis, ha preso il posto di molti giornali di cronaca locale, ha ricostruito un legame tra il lettore e il “suo giornale”, distrutto negli anni dalla corsa ai contenuti nazionali, al web più 2.0, alle sinergie fra testate dello stesso gruppo allo scopo di contrarre i costi il più possibile.
Come? Con un impianto grafico agile, con pezzi non superiori alle 45 righe, fotografie usate non come riempitivo ma come elemento della notizia, titoli a due righe con occhiello e un sommarietto, dunque capaci di spiegare bene una notizia, senza ridurla a stupidi calembour.

Avendo lavorato per un decennio in piccoli giornali definiti con epiteti tipo «giornalaccio»; «giornaletto»; «giornale scandalistico» eccetera, non sopporto poi quando si definisce un giornale «minore». È ovvio che se definisci – l’articolo di Belpoliti lo fa  un giornale «maggiore» è perché pensi ve ne sia un altro di segno opposto. Non è solo orgoglio, ma l’idea insopportabile che noi del «giornaletto minore» magari non ci prendiamo le responsabilità come «quelli grandi».
Eh no. Se il maestro Manzi aveva la bacchetta e la lavagna ma per finta, per ricreare un ambiente scolastico negli studi televisivi, chi ha scritto su un giornale quotidiano sa bene che le necessità, i rischi, le possibilità di trovare notizie buone. E soprattutto sa bene che si può fare informazione.  Informazione di servizio? Sì, ma è affatto una funzione secondaria rispetto a quella delle testate principali, zeppe di editorialisti e di lenzuolate sulla politica  nostrana, ormai illegibili.

Filomena non è Filumena

Eduardo De Filippo è uno dei legami più profondi che ho con la mia città. Ne condivido tutto, anche quella che molti chiamavano “cattiveria“, il distacco e la rabbia nel guardare Napoli sfaldarsi. Ho studiato per quel che potevo i capolavori che ha scritto, lo ammiro al limite della venerazione, ho di recente perfino comprato un libro sulla sua passione per la cucina. Sono d’accordo con chi disse, il giorno del Premio Nobel a Dario Fo, che quello era anche il premio di Eduardo, commediografo tradotto in tutto il mondo.

“Filumena Marturano” è un respiro profondo.
Un critico scrisse all’epoca che  “Natale in casa Cupiello” era guardare dall’occhio della serratura di una casa napoletana, ebbene Filumena è un occhio gettato in un vascio. Si può sentirne uscire urla, disperazione, parole, gesti e poi risate, gioia, interrogativi, il tempo che passa e le domande che restano. È il sospiro rassegnato di una città dilaniata.

Filumena è Titina  De Filippo. Eduardo lo scrisse pensando a lei. Ma è stata anche Regina Bianchi, entrambe sia in teatro che in adattamenti televisivi.

Al cinema fu Sofia Loren con un bel Marcello Mastroianni – Mimì Soriano per la regia di Vittorio De Sica (“Matrimonio all’Italiana”). Titina non aveva la faccia della bella ex prostituta, in questo la Loren era insuperabile, così come Soriano-Mastroianni, vecchio ex puttaniere e giocatore di cavalli. Ma Titina era Titina, Eduardo era Eduardo.

Giungiamo ad oggi.  È andata in onda su Rai uno, preceduta da annunci in pompa magna, una “Filumena Marturano” riveduta e corretta. Tutta  interpretata in italiano, interpretata da Massimo Ranieri e Mariangela Melato. In italiano per modo di dire. I personaggi principali parlavano in italiano, poi c’erano quelli più macchiettistici (la serva, il figlio idraulico) che invece “napoletaneggiavano”. Insomma, la lingua dei pagliacci.

E ancora: un Ranieri che sembrava interpretare un cantante di giacchetta anziché un tormentato don Mimì Soriano, una Melato scattosa, eccessiva in tutto, come se donna Filumena fosse stata una specie di pazza isterica. Ridicola, alla fine.

Beh, che dire poi della scena clou, il monologo di Filumena davanti ai figli. Siamo nel secondo atto: la donna, ex prostituta con tre figli cresciuti di nascosto, da lontano, all’insaputa degli stessi ragazzi, li ha fatti incontrare.
A loro, increduli spiega la sua vita. Il testo integrale originale è questo in calce. Ditemi voi, se è possibile tradurlo in italiano. Se è possibile restituire «’o calore» con l’italiano «il calore». Se è possibile parlare di vascie in italiano. Eduardo è un autore universale se reso con sincerità.
Fu egli stesso, De Filippo, racconta lo scrittore Andrea Camilleri che gli fu vicino in qualità di funzionario televisivo per qualche anno, a definire la recitazione come “un patto tra gli attori”.

Ebbene, Raiuno ha tradito questo patto violentando Eduardo nella lingua italiana, ch’egli sapeva padroneggiare ma che non usò per Filumena. Questa qui di Ranieri e Melato è “Filomena”. E me ne frego degli indici d’ascolto, non è Eduardo De Filippo.

Atto secondo.

FILUMENA (risoluta) E chi si’ tu, ca me vuò mpedì ‘e dicere, vicin’ ‘e figlie mieie, ca me so’ ffiglie? (A Nocella) Avvoca’, chesto ‘a legge d’ ‘o munno m’ ‘o permette, no? …(Piu aggressiva che commossa) Me site figlie! E io so’ Filumena Marturano, e nun aggio bisogno ‘e parlà. Vuie site giuvinotte e avite ntiso parlà ‘e me. (I tre giovani rimangono impietriti: Umberto sbiancato in volto, Riccardo gli occhi a terra come vergognoso, Michele con la sua aria imbambolata per la meraviglia e la commozione. Filumena incalza) ‘E me nun aggi’ ‘a dicere niente! Ma ‘e fino a quanno tenevo diciassett’anne, si. (Pausa).

Avvoca’, ‘e ssapite chilli vascie… (Marca la parola) I bassi… A San Giuvanniello, a ‘e Virgene, a Furcella, ‘e Tribunale, ‘o Pallunetto! Nire, affummecate… addò ‘a stagione nun se rispira p’ ‘o calore pecché ‘a gente è assaie, e ‘a vvierno ‘o friddo fa sbattere ‘e diente… Addò nun ce sta luce manco a mieziuorno… Io parlo napoletano, scusate… Dove non c’è luce nemmeno a mezzogiorno… Chin’ ‘e ggente! Addò è meglio ‘o friddo c’ ‘o calore… Dint’ a nu vascio ‘e chille, ‘o vico San Liborio, ce stev’io c’ ‘a famiglia mia. Quant’èramo? Na folla! Io ‘a famiglia mia nun saccio che fine ha fatto. Nun ‘o vvoglio sapé. Nun m’ ‘o rricordo! …Sempe ch’ ‘e ffaccie avutate, sempe in urto ll’uno cu’ ll’ato… Ce coricàvemo senza di’: «Buonanotte! » Ce scetàvemo senza di’: «Bongiorno! » Una parola bbona, me ricordo ca m’ ‘a dicette pàtemo… e quanno m’ ‘arricordo tremmo mo pè tanno… Tenevo tridece anne. Me dicette: «Te staie facenno grossa, e ccà nun ce sta che magnà, ‘o ssaje? » E ‘o calore! …’A notte, quanno se chiudeva ‘a porta, nun se puteva rispirà. ‘A sera ce mettévemo attuorno ‘a tavula… Unu piatto gruosso e nun saccio quanta furchette. Forse nun era overo, ma ogne vota ca mettevo ‘a furchetta dint’ ‘o piatto, me sentevo ‘e guardà. Pareva comme si m’ ‘avesse arrubbato, chellu magnà!

…Tenevo diciassett’anne. Passàveno ‘e ssignurine vestite bbene, cu’ belli scarpe, e io ‘e guardavo… Passàveno sott’ ‘o braccio d’ ‘e fidanzate. Na sera ncuntraie na cumpagna d’ ‘a mia, che manco ‘a cunuscette talmente steva vestuta bbona… Forse, allora, me pareva cchiù bello tutte cose… Me dicette (sillabando): «Così… Così… Così…» Nun durmette tutt a notte… o calore… ‘o calore… E cunuscette a tte! (Domenico trasale). Là, te ricuorde?.. Chella «casa» me pareva na reggia… Turnaie na sera ‘o vico San Liborio, ‘o core me sbatteva. Pensavo: «Forse nun me guardaranno nfaccia, me mettarranno for’ ‘a porta!» Nessuno mi disse niente: chi me deva ‘a seggia, chi m’accarezzava… E me guardavano comm’ a una superiore a loro, che dà soggezione… Sulo mammà, quanno ‘a iette a salutà, teneva ll’uocchie chin’ ‘e lagreme… ‘A casa mia nun ce turnaie cchiù!

(Quasi gridando) Nun ll’aggio accise ‘e figlie! ‘A famiglia… ‘a famiglia! Vinticinc’anne ce aggio penzato! (Ai giovanotti) E v’aggio crisciuto, v’aggio fatto uommene, aggio arrubbato a isso (mostra Domenico) pè ve crescere!