Per una mappa della crisi del giornalismo e dell’editoria italiana

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«We can work it out»
Beatles, 1965

Bilancino della giornata. Vediamo… Oggi ho prodotto dieci – o dodici – aggiornamenti della Borsa. Altri tre o quattro pastoni. Nessunafirma. Visibilità zero. Nebbia in Valpadana. Vieni all’online, dicevano, qui è il giornale del futuro.
“Perché comprare un giornale che esce una volta al giorno quando lo puoi avere aggiornato ogni ora?” Sì, ogni ora, ogni mezz’ora, ogni minuto no? E perché no? Mortacci vostra… Ma noi siamo la punta di diamante del futuro. “Il futuro è qui”.
Il giornalismo di domani è questo. Giornalismo? Questo non è giornalismo, non per me almeno. Anche oggi non ho chiamato nessuna fonte, non ho sentito nessuno, non ho visto niente.
Non ho messo fuori il piede dalla redazione. Ho passato i soliti 5mila lanci di agenzia quotidiani alla ricerca della NOTIZIA. Ho linkato siti e siti, documenti, file pdf, immagini e suoni. Ho seguito indici, opzioni, future, azioni, obbligazioni. Ho travasato numerini e nomi da uno schermo ad altri schermi. Li ho riversati in migliaia di schermi di altri internauti.
Non ho verificato una sola riga di quello che ho scritto. Domani è un altro giorno.
Domani splenderà il sole e il Giornalismo ti bacerà in fronte.
Buonanotte.

«Io lavoro al desk, di un portale a ore…» –  Il Barbiere della Sera, dicembre 2000

.


UNA PREMESSA PERSONALE
Ho iniziato a fare il giornalista nel 1997. Allora, in molte piccole redazioni locali, non era ancora arrivata internet.
Delle prospettive di questo mestiere ne discutevano ai convegni negli hotel e ai festival in ridenti località balneari, docenti universitari e guru americani, sindacalisti e presidenti dell’Ordine professionale, direttori e importanti cronisti.
Oggi, 2010, non esiste una discussione sul giornalismo che prescinda dal confronto via internet.
Sulle regole e su certi meccanismi teorici di questo mestiere ho imparato di più leggendo sul web che preparandomi all’esame d’idoneità professionale.
Ho iniziato disegnando la pagina sul menabò di carta per passarla all’ufficio grafico. Oggi la mia giornata da deskista comincia scegliendo da un book elettronico i master delle pagine. Drag and drop, et voilà: la “cornice” è montata nello spazio che mi è stato assegnato. Quando ho cominciato mi sottolineavano l’importanza (e l’obbligo, se non si era fuori per servizio) di passare in redazione la mattina per leggere i giornali. Stamattina mi sono svegliato e prima d’uscire ho scaricato i quotidiani, letto la rassegna stampa pdf. Mi sono trovato “in redazione”  digitando username e password, perché sono in telelavoro.

Oggi la mia redazione è ovunque.

Durante un convegno molto lungo posso sedermi (ecco, magari non proprio davanti al buffet) e iniziare a scrivere il pezzo. O impostare il titolo della pagina. Posso scaricare le fotografie via Usb, farle vedere in redazione, mandare ad un collega di Milano l’mp3 col discorso del suo sindaco in trasferta a Napoli.
Lo posso fare. Anzi l’ho già fatto.
Avevo – ed ho ancora – una rubrica telefonica di carta. Rossa, con la copertina rigida, ci sono un migliaio di numeri. Non la consulto più da anni e non perché la necessità di chiamare qualcuno si sia ridotta (o forse sì?) ma perché non ho più bisogno di annotare numeri con la penna. Che senso ha, non poterli mettere su un file e poi importarli nel Blackberry?

Per me, classe 1977, è cambiato molto meno di quanto è cambiato ad esempio per un collega nato nel 1950. Eppure, mentre per lui la “rivoluzione tecnologica”  ha rappresentato sì il rischio di esuberi e prepensionamenti ma a fronte d’una carriera iniziata con tutti i crismi (contratto e solidità previdenziale, possibilità di promozioni), per me è stato l’inizio di una instabilità perpetua. Un pilastro di cemento piazzato tra il sottoscritto e i gradini della scala di mobilità sociale.

UNA MAPPA DELLA CRISI DELL’EDITORIA IN ITALIA
La premessa personale mi era indispensabile per introdurre un lavoro su quest’ultimo anno dell’editoria italiana.
Si tratta  nient’altro che della riproposizione grafica, con Google Maps, dell’elenco delle circa 40 vertenze di lavoro portate avanti nel 2009 dalla Federazione Italiana della Stampa. Ristrutturazioni, cassa integrazione, contratti di solidarietà, esuberi, prepensionamenti. Una mappa ovviamente incompleta ma che conto di aggiornare via via, di aprire a collaborazioni.
A che serve riproporre così i dati?
Le vertenze editoriali dell’anno appena trascorso, sono tantissime per un piccolo Paese come il nostro: la riproposizione mash-up consente di rendere più evidente la gravità di tale situazione. Mi sono ispirato, pur non disponendo della complessa rete di “rumors” aziendali che ne costituisce l’autentica ricchezza, a Paper Cuts il sito americano che analizza giorno per giorno la crisi editoriale americana.

Ma cosa c’entrano l’esperienza  in premessa e la crisi dell’editoria col futuro del giornalismo? Spesso di quest’ultimo si parla prescindendo dalla crisi. Del resto la Rete va avanti, i social media ribaltano e controribaltano vecchie gerarchie. Sempre più  di frequente, forse a ragion veduta, si identificano la crisi del giornalismo con quella dell’editoria, entrambe contrapposte alla continua, positiva, evoluzione della Rete. Un assunto che ho sentito ripetere spesso in questo periodo è: la crisi è un’opportunità. Brutalmente: perché dovremmo preoccuparci del vecchio, se ci salverà il nuovo che avanza?

GLI EFFETTI DI QUESTA SITUAZIONE USURANTE
La scure sui posti di lavoro nel settore, nel biennio 09/10 (esuberi stimati dalla Fnsi: circa 700); la costante tensione tra le parti (editore vs. giornalista), i continui piani di riassetto e le diatribe sindacali si traducono nient’altro che in cure dimagranti repentine, dannose come solo le diete drastiche sanno essere.

La crisi si è palesata come una violenta spallata contro un giornalista già barcollante. Altro che schiena dritta! Il progressivo depauperamento delle redazioni e l’inasprimento dei rapporti aziendali non giova alla quiete e alla serenità che questo mestiere richiede.
A dispetto della mitologia cinematografica che restituisce l’immagine di cronisti travagliati e bohèmienne, la discesa “sul campo”, la cura delle fonti e la verifica delle informazioni sono possibili solo in un contesto di relativa tranquillità. Quindi senza gli affanni della produzione in tempi compressi, i carichi improbi di lavoro, la multipla fatica del cronista-deskista (articoli, più titoli, più impaginazione). In caso contrario è facile sbagliare e cadere per esempio in errore. Errore  che per il giornalista sempre più spesso si tramuta nella temuta, e dispendiosa querela per diffamazione (o causa civile per risarcimento danni).
I detrattori dell’attuale modo di fare giornalismo conoscono bene certi vizi di questo mestiere: la riproposizione eterna di clichè, la poca voglia di scavare, rischiare, di cercare le “storie”. L’accontentarsi del “cotto e mangiato” che arriva dalle agenzie di stampa, il limitarsi al copia-incolla dai comunicati stampa. Sono solo alcuni degli effetti primari del sistema deprimente che abbiamo intorno.

Molti scordano che il giornalista è prima di tutto un lavoratore.

Guardando la mappa delle vertenze curate dal sindacato, si evince come la mannaia si sia abbattuta con forza sulle redazioni regionali. Parliamo di giornali piccoli e medi, all’interno dei quali ad ogni accenno di crisi le tensioni tra gli stessi dipendenti raggiungono livelli altissimi e si riverberano sull’intera catena di comando, dal caporedattore al redattore, dall’«abusivo di redazione» al collaboratore esterno senza contratto. Per quanti di loro, i nervi non avranno retto? E parliamo delle situazioni conosciute agli organismi sindacali e previdenziali. Ci sono tantissimi casi “invisibili”, conosciuti solo dai diretti protagonisti.  Sarebbe interessante capire qual è stata, nel 2009, l’incidenza della spesa Casagit per psicoterapia, nonchè  quantificare con le Assostampa locali le cause di mobbing. Potremmo trovarci davanti a due indicatori importanti degli effetti della crisi.

MA PARLAVAMO DI GIORNALISMO
Se se ne esce, saranno i dati della fine dell’anno a suggerircelo. Le previsioni sono discordanti, tuttavia una cosa la si può affermare con relativa certezza: l’editoria degli “anni zero” ci sta portando su strade nuove. Nuove nelle forme, nei contenuti, nei modelli di gestione e diffusione. E il giornalismo?

«Ho travasato numerini e nomi da uno schermo ad altri schermi. Li ho riversati in migliaia di schermi di altri internauti.  Non ho verificato una sola riga di quello che ho scritto. Domani è un altro giorno».

Così scriveva l’ironico narratore del Barbiere della Sera 10 anni fa. Nel corso di questo periodo si sarà probabilmente reso conto che non sono più le informazioni ad essere “riversate negli schermi” bensì sono gli utenti, i lettori, ad aggrapparsi ogni giorno a varie maniglie del sistema: una volta è il sito del quotidiano, un’altra volta è il social-media, l’altra ancora è il blog  e chissà quante altre maniglie ancora.

Cosa farà ora, a dieci anni di distanza, quel «giornalista del portale ad ore?». Spero per lui che sia stato assunto. E che il suo portale sia sfuggito alla selezione darwiniana. Me lo immagino con un contratto al minimo tabellare, pochi incentivi alla formazione professionale, nessun integrativo in busta paga. E accanito lettore delle discussioni sul giornalismo che corrono in Rete.

Del resto, a dispetto della crisi, non ha mai perso la voglia di fare questo mestiere per davvero. Un giorno.

«We can work it out»
Beatles, 1965

Bilancino della giornata. Vediamo… Oggi ho prodotto dieci – o dodici – aggiornamenti della Borsa. Altri tre o quattro

pastoni. Nessunafirma. Visibilità zero. Nebbia in Valpadana. Vieni all’online, dicevano, qui è il giornale del futuro.
“Perché comprare un giornale che esce una volta al giorno quando lo puoi avere aggiornato ogni ora?” Sì, ogni ora, ogni

mezz’ora, ogni minuto no? E perché no? Mortacci vostra… Ma noi siamo la punta di diamante del futuro. “Il futuro è qui”.

Il giornalismo di domani è questo. Giornalismo? Questo non è giornalismo, non per me almeno. Anche oggi non ho chiamato

nessuna fonte, non ho sentito nessuno, non ho visto niente.
Non ho messo fuori il piede dalla redazione. Ho passato i soliti 5mila lanci di agenzia quotidiani alla ricerca della

NOTIZIA. Ho linkato siti e siti, documenti, file pdf, immagini e suoni. Ho seguito indici, opzioni, future, azioni,

obbligazioni. Ho travasato numerini e nomi da uno schermo ad altri schermi. Li ho riversati in migliaia di schermi di altri

internauti.
Non ho verificato una sola riga di quello che ho scritto. Domani è un altro giorno.

Domani splenderà il sole e il Giornalismo ti bacerà in fronte.
Buonanotte.

«Io lavoro al desk, di un portale a ore…» –  Il Barbiere della Sera, dicembre 2000

UNA PREMESSA PERSONALE

Ho iniziato a fare il giornalista nel 1997. Allora, nelle piccole redazioni locali, non era ancora arrivata internet.
Delle prospettive di questo mestiere ne discutevano ai convegni negli hotel e ai festival in ridenti località balneari

docenti universitari e guru americani, sindacalisti e presidenti dell’Ordine professionale, direttori e importanti cronisti.
Nel 2010 non esiste una discussione sul giornalismo che prescinda dal confronto via internet.
Sulle regole e su certi meccanismi teorici di questo mestiere ho imparato di più leggendo sul web che preparandomi all’esame

d’idoneità professionale.
Ho iniziato disegnando la pagina sul menabò di carta per passarla all’ufficio grafico. Oggi la mia giornata da deskista

comincia scegliendo da un book elettronico i master delle pagine. Drag & drop, et voilà: la “cornice” è montata nello spazio

che mi è stato assegnato. Quando ho cominciato mi sottolineavano l’importanza (e l’obbligo, se non si era fuori per servizio)

di andare in redazione la mattina alle 10.30 per leggere i giornali. Stamattina mi sono svegliato prima d’uscire, ho

scaricato i quotidiani e letto la rassegna stampa pdf. Mi sono trovato “in redazione”  digitando username e password, perché

sono in telelavoro.

Oggi, la mia redazione è ovunque.

Durante un convegno molto lungo posso sedermi (ecco, magari non proprio davanti al buffet) e inizare a scrivere il pezzo. O

impostare il titolo della pagina. Posso scaricare le fotografie via Usb, farle vedere in redazione, mandare ad un collega di

Milano l’mp3 col discorso del suo sindaco in trasferta a Napoli.
Lo posso fare anzi, l’ho già fatto.
Avevo – ed ho ancora – una rubrica telefonica di carta. Rossa, con la copertina rigida, ci sono un migliaio di numeri. Non la

consulto più da anni e non perché la necessità di chiamare qualcuno si sia ridotta (o forse sì?) ma perché non ho più bisogno

di annotare numeri con la penna. Che senso ha, non poterli mettere su un file e poi importarli nel BlackBerry?

Per me, classe 1977, è cambiato molto meno di quanto è cambiato ad esempio per un collega nato nel 1950. Eppure, mentre per

lui la “rivoluzione tecnologica”  ha rappresentato sì il rischio di esuberi e prepensionamenti ma a fronte d’una carriera

iniziata con tutti i crismi (contratto e solidità previdenziale, possibilità di promozioni), per me è stato l’inizio di una

instabilità perpetua. Un pilastro di cemento piazzato tra me e i gradini della scala di mobilità sociale.

UNA MAPPA DELLA CRISI DELL’EDITORIA IN ITALIA

La premessa personale mi era indispensabile per introdurre un lavoro su quest’ultimo anno dell’editoria italiana.
Si tratta  nient’altro che della riproposizione grafica, con Google Maps, dell’elenco delle circa 40 vertenze di lavoro

portate avanti nel 2009 dalla Federazione Italiana della Stampa. Ristrutturazioni, Cassa integrazione, contratti di

solidarietà, esuberi, prepensionamenti. Una mappa ovviamente incompleta ma che conto di aprire a collaborazioni. Magari di

affidare alla stessa Fnsi.
A che serve, riproporre così i dati?
Le vertenze editoriali dell’anno appena trascorso, sono tantissime per un piccolo Paese come il nostro: la riproposizione

mash-up consente di rendere più evidente la gravità di tale situazione. Mi sono ispirato, pur non disponendo della complessa

rete di “rumors” aziendali che ne costituisce l’autentica ricchezza, a “Paper Cuts”, il sito americano che analizza giorno

per giorno la crisi editoriale americana.

Ma cosa c’entrano l’esperienza personale in premessa e la crisi dell’editoria col futuro del giornalismo? Spesso di

quest’ultimo si parla prescindendo dalla crisi. Del resto la Rete va avanti, i social network ribaltano e controribaltano

vecchie gerarchie. Sempre più spesso, forse a ragion veduta, si identificano la crisi del giornalismo con quella

dell’editoria, entrambe contrapposte alla continua, positiva, evoluzione della Rete. Un assunto che ho sentito ripetere

spesso in questo periodo: la crisi è una opportunità. Brutalmente: perché dovremmo preoccuparci del vecchio, se l’innovazione

arriva a passo di giava?

GLI EFFETTI DI QUESTA SITUAZIONE USURANTE

La scure sui posti di lavoro nel settore, nel biennio 09/10 (stimati dalla Fnsi in circa 700); la costante tensione tra le

parti (editore vs. giornalista), i continui piani di riassetto e le diatribe sindacali si traducono nient’altro che in cure

dimagranti repentine, dannose come solo le diete drastiche sanno essere.

La crisi si è palesata come una violenta spallata contro un giornalista già barcollante. Altro che schiena dritta! Il

progressivo depauperamento delle redazioni e l’inasprimento dei rapporti aziendali non giova alla quiete e alla serenità che

questo mestiere richiede. A dispetto della mitologia cinematografica che restituisce l’immagine di cronisti travagliati e

bohèmienne, la discesa “sul campo”, la cura delle fonti e la verifica delle informazioni sono possibili solo in un contesto

di relativa tranquillità. Senza gli affanni della produzione in tempi compressi, i carichi improbi di lavoro, la multipla

fatica del cronista-deskista (quindi articoli più titoli e impaginazione). In caso contrario è facile sbagliare e cadere per

esempio nella  “buca”  che per il giornalista spesso è la dispendiosa, pericolosa, querela per diffamazione (o causa civile

per risarcimento danni). Non solo quello: la riproposizione di clichè, la poca voglia di innovare di cercare le “storie”.

Accontentarsi del cotto e mangiato che arriva dalle agenzie e del copia-incolla dai comunicati stampa è uno degli effetti

primari del sistema deprimente che abbiamo intorno.

Un giornalista è prima di tutto un lavoratore.

Guardando la mappa delle vertenze curate dal sindacato, si evince come la mannaia si sia abbattuta con forza sulle redazioni

regionali. Parliamo di giornali piccoli e medi, all’interno dei quali ad ogni accenno di crisi le tensioni raggiungono

livelli altissimi e si riverberano sull’intera catena di comando, dal caporedattore al redattore, dall’«abusivo di redazione»

al collaboratore esterno senza contratto. Per quanti di loro, i nervi non avranno retto? E parliamo delle situazioni

conosciute agli organismi sindacali e previdenziali: ci sono tantissimi casi “invisibili”, conosciuti solo dai diretti

protagonisti.  Sarebbe interessante capire qual è stata nel 2009 l’incidenza della spesa Casagit per psicologi e quantificare

con le Assostampa locali le cause di mobbing. Potremmo trovarci davanti a due indicatori importanti degli effetti della

crisi.

MA PARLAVAMO DI GIORNALISMO

Se se ne esce, saranno i dati della fine dell’anno a dirlo con certezza. Le previsioni sono discordanti, tuttavia una cosa la

si può affermare con relativa certezza: l’editoria degli “anni zero” ha cambiato strada. Nelle forme, nei contenuti, nei

modelli di gestione e diffusione. E il giornalismo?

«Ho travasato numerini e nomi da uno schermo ad altri schermi. Li ho riversati in migliaia di schermi di altri internauti.

Non ho verificato una sola riga di quello che ho scritto. Domani è un altro giorno».

Così scriveva l’ironico narratore del Barbiere della Sera dieci anni fa. Nel corso d’un decennio si sarà probabilmente reso

conto che non sono più le informazioni ad essere “riversate negli schermi” bensì sono gli utenti, i lettori, ad aggrapparsi

ogni giorno a varie maniglie del sistema: una volta è il sito del quotidiano, un’altra volta è il social-media, l’altra

ancora è il blog  e chissà quante altre maniglie ancora.

Cosa farà ora, a dieci anni di distanza, quel «giornalista del portale ad ore?». Spero per lui che sia stato assunto. E che

il suo portale sia sfuggito alla selezione darwiniana. Me lo immagino con un contratto al minimo tabellare, pochi incentivi

alla formazione professionale, nessun integrativo in busta paga. E accanito lettore delle discussioni sul giornalismo che

corrono in Rete. Del resto, a dispetto della crisi, non ha mai perso la voglia di fare questo mestiere per davvero. Un

giorno.

Il nono degli Eretici digitali

Non posso non pensare al mio telelavoro giornalistico quando leggo fra le tesi del manifesto degli Eretici digitali questa qui:

IX. Il reboot del giornalismo
Il giornalismo, sia quello dei grandi media sia quello praticato dal basso, deve rigenerarsi. Nelle pratiche, negli strumenti, nei modelli economici. Deve affrancarsi dai vizi della corporazione, trovare il coraggio di rimettersi in gioco, innervare le nuove modalità di raccolta, racconto e distribuzione di informazione con i principi base del mestiere.

Reputazione aziendale. Del «ma che cavolo hai scritto!»

Chiunque lavori per una azienda – di qualsiasi tipo – e abbia un blog, sa benissimo cosa significa  avere il coraggio di scriver male della sua ditta. Significa soprattutto ricevere entro i successivi venti minuti, una telefonata del tipo «ma cosa cazzo hai scritto!». Di solito chi chiama per dirtelo, anzi per “avvisarti”, è quello che t’ha cantato con tutta la scala gerarchica aziendale.

Peggio poi quando hai un ruolo, da quello manageriale a quello sindacale: le tue parole hanno già un peso specifico enorme, sul web diventano micidiali. E se poi, come succede a me, il 70% dei tuoi colleghi è in telelavoro e dunque ha la Rete come ossigeno, cosa accade? Ve lo dico io: è un delirio. Di voci, proteste, lamentele, sospetti, ipotesi e via discorrendo. Non è sempre male, però qualche volta mi sono stupito anch’io della facilità “di sentenza” che hanno molti colleghi (anche alcuni miei colleghi). A volte sembra un cannone in mano ad un bambino. Vabbè, tutto questo per introdurre l’indagine “Risky Business: Reputations Online” di Weber Shandwick. L’agenzia ha predisposto anche un vademecum di 15 consigli per evitare di trovarsi nella drammatica situazione del «…ma come ti è venuto in mente di scriverlo!».
Particolarmente condivisibile il punto numero 6 dello studio: «Traditional media outranks new media as reputation referee».