Mariarca e le bufale dei giornalisti precari

Mariarca era una infermiera dell’Asl Napoli 1. Per protesta contro il disastro sanità in Campania e il mancato pagamento del suo stipendio aveva inizato a tirasi il sangue ogni giorno. Qualche giorno fa è morta. Dicono i medici non per via di quei salassi.

I giornali napoletani ne hanno parlato molto. Non solo quelli: dal Tg1 a Sky, dal Corriere della Sera al Manifesto. Sul blog di Panorama, leggo un pezzo a firma Carlo Puca. Puca è un collega davvero molto bravo,  me lo ricordo quattro anni fa a Napoli come  portavoce di Rosetta Iervolino ricandidata dal centrosinistra al Comune partenopeo. Se la cavò bene, quando è andato via dalla città è evidentemente rimasto in contatto con molte fonti perchè poi su  Panorama ha scritto cose circostanziate e attuali su Napoli.

Puca vuole smontare la storia dell’infermiera  morta per la protesta,  dice che l’autopsia ha confermato: era colpa di un’altra patologia. Se la prende con Adriano Sofri che in un bel pezzo su Repubblica parlava di Mariarca e  pure definiva «incresciosa» la disputa sulle cause cliniche del decesso. Poi scrive:

L’altro giorno il Fatto quotidiano pubblicava una bella inchiesta sui sottopagati cronisti partenopei. I quali, per «campare», sono costretti a orari da terzo mondo e a scrivere a cottimo. E per questo, aggiungo io, tendono a proporre articoli «esagerando» notizie autentiche. O, addirittura, inventandole. Con la stampa nazionale, altrimenti detta «seria», a inseguire le suddette invenzioni.

L’inchiesta de Il Fatto è quella sul nostro Coordinamento giornalisti precari e freelance della Campania; dai presupposti di una denuncia  sulle condizioni di lavoro inaccettabili e di compensi inadeguati, Puca trae una considerazione totalmente fallata. Chi fa questo mestiere lo sa bene:   è assurdo immaginare  che un collaboratore esterno possa incidere sulla prima pagina di un giornale, sulla sua linea editoriale. E pure su quello che gli altri giornali faranno.  La notizia aveva una sua forza e non è stata smentita solo perchè era devastante.  Ci creda il buon Puca, la frase «siccome la faccenda è capitata a Napoli, deve per forza essere vera» apparteneva ai capicronisti di vent’anni fa. I più “controllati” sono proprio i collaboratori: senza notizia in bocca, niente denaro. Ora si dice «a Napoli? Si esagera sempre».
Poi c’è una infermiera che muore e ti ricorda una regola fondamentale di questo mestiere:  guarda ai fatti, ti stupiranno sempre.

Fine pena mai

Ieri mattina Luca Sofri ha messo sul blog un vecchio scritto, di quando andava a San Vittore e aspettava la visita con papà suo. E’ passato qualche anno da quando ha scritto quel pezzo, ma io ricordavo di aver visto poco tempo fa le stesse scene davanti alle carceri di Poggioreale e Secondigliano.

Questo carcere ha le sue regole. Regola uno, le regole non si discutono. Non perché sia vietato, ma perché non c’è niente da discutere. Come l’esistenza di Dio, per capirsi. Immaginate di poter discutere una regola come “non si possono mostrare ai detenuti foto di assembramenti”? È saltata fuori una volta che avevo portato a mio padre delle foto di persone a lui care, scattate a un incontro pubblico sulla sua storia. E così via. Le regole prevedono che il detenuto possa ricevere quattro visite al mese, ciascuna di tre persone al massimo, tutti familiari, o persone di strettissima e certificata relazione, ciascuna visita della durata di un’ora. Le visite possono diventare sei, se il detenuto ha tenuto una buona condotta durante il mese, guadagnandosene due premiali. Per avere le visite premiali però bisogna fare domandina. Parla così, il carcere, dice “premiali”, e “familiari”, e dice “domandina”. Un misto continuo di burocratese da motorizzazione civile e linguaggio da asilo nido.

Di Poggioreale ho visto poco tempo fa in tv. Il collega Andrea Postiglione ha fatto la notte per riprendere all’alba del giorno di visite, l’umanità che si accalca davanti alla porta verde pittata di recente (qualche anno fa spararono ad un boss appena uscito e i proiettili segnarono anche l’ingresso blindato della casa circondariale). A Secondigliano invece ci sono tornato poche settimane fa: presentavano un progetto per i detenuti, gli fanno zappare la terra e crescere piantine per le aiuole comunali. Tutto bello, poi quando mi sono avvicinato ad uno di loro, un “fine pena mai”, l’inserviente mi ha bloccato: può tenere la zappa, sorridere e far foto, ma non può parlare. Alcuni amici mi dicono che ora alle visite di “ispezione” che i consiglieri regionali e i deputati possono effettuare nelle carceri, bisogna dichiarare se si va con un giornalista. Bisogna dirlo prima, se c’è uno che l’indomani scriverà dell’inferno carceri. Così magari gli fanno fare il giro più bello.

Web censura: rassegnati stampa

great_firewall_of_china

Ecco, questa bella immagine si chiama “Great Firewall of China”. Cina, non Italia. Però qualcuno già prospetta una deriva del genere per noi, con le  annunciate restrizioni a internet dopo il caso Berlusconi-Tartaglia.

Oggi il Corriere della Sera con Beppe Severgnini esprime opinione di senso opposto rispetto a quella pubblicata ieri , autore Gian Antonio Stella. Mi piace pensare che qualcuno in via Solferino abbia letto le tante opinioni  diverse rispetto a quella dell’autore de “La Casta” e si sia regolato di conseguenza. Una delle cose più intelligenti l’ha fatta Adriano Sofri su Repubblica, riportando semplicemente stralci della conversazione fra lui e gli utenti, subito dopo il fattaccio.

Dolori esclusivi

Nelle prime ore del terremoto d’ Abruzzo, scrive Adriano Sofri, «non c’è stato un casting, non c’erano telecamere pronte». Ha ragione, è stato così. Ma per la verità han subito rimediato.  Una autocolonna di  importanti registi italiani e non, vale a dire Paolo Sorrentino;  Michele Placido;  Mimmo Calopresti; Ferzan Ozpetek e Francesca Comencini sono andati o sono ancora a L’Aquila. Riprese subito montate e riversate su web. Perché? Non saprei, davvero, mi viene solo in mente la “Merda d’artista” del “Manzoni quello vero, Piero“.

Contro i giornalisti s’è scatenato invece un putiferio: accusati di scarsa sensibilità. In alcuni casi chi lo dice ha perfettamente ragione. Penso a quel «scrivo da un paese che non esiste più» di Giampaolo Pansa. Fra vent’anni ci sarà un unico articolo di giornale che sintetizzerà  in maniera così efficace la tragedia, come accadde per  il Vajont?

Parlo con un amico documentarista, uno di quelli molto bravi, famosi e profondamente umani nel proprio lavoro. Dice lui che no, non ci sarebbe andato ora  a fare le riprese;  semmai sarebbe meglio farlo fra un mese o due, quando i più si saranno dimenticati di tutte quelle persone che ora sono costrette a vivere, oltre che male, sotto i riflettori delle troupe giornalistiche e di filmmakers assetati di storie.

Ma più di tutto quel che mi stupisce, sconcerta e anche indigna un po’, è quella parola, nella sezione di Repubblica.it del terremoto, dedicata ai video d’artista: Esclusivo.