A Post coi numeri. E con la coscienza

(beh, se chiami un giornale così poi certi titoli te li devi aspettare).

Ho letto con attenzione quegli articoli sul presente e sull’ipotetico futuro del Post, il giornale diretto da Luca Sofri. Non ci vuole uno scienziato (e mi viene in mente Riccardo Pazzaglia con il suo “Me ne vado a fare il guru“) per capire che è ridicolo oggi tentare un bilancio o trarre leggi universali da questa iniziativa editoriale.
Ma non ne avrei avrei parlato nemmeno: agli scetticismi sulla sostenibilità economica del Post ha già risposto il diretto interessato e anche qualche altro professionista sicuramente più capace di me.

C’è una parte che mi appassiona, tanto. È quella che riguarda i giornalisti e le loro retribuzioni. Lessi  a suo tempo (era appena gennaio! Ma come cazzo fanno certi a proporre bilanci a meno di un anno?) l’annuncio di lavoro e ora leggo che il giornale online ha inquadrato i suoi redattori con il contratto nazionale di lavoro giornalistico. Una scelta coraggiosa di questi tempi, una scelta d’onestà e di coerenza. Dice qualcuno che con la coerenza non ci porti il pane a casa e che forse è meglio inquadrare i ragazzi che lavorano in redazione con un contrattiello da web editor, di quelli la cui carta vale più del compenso che garantiscono: 6mila euro all’anno.
Sarà che di questi tempi sono ancora più sensibile all’argomento, ma la scelta di inquadrare correttamente i giornalisti va difesa e sostenuta. Leggete il Post anche perché non affama i suoi 5 cronisti.

(lo scriverei in calce ai pezzi: «Nessun giornalista è stato sfruttato per la stesura di quest’articolo»).

Fine pena mai

Ieri mattina Luca Sofri ha messo sul blog un vecchio scritto, di quando andava a San Vittore e aspettava la visita con papà suo. E’ passato qualche anno da quando ha scritto quel pezzo, ma io ricordavo di aver visto poco tempo fa le stesse scene davanti alle carceri di Poggioreale e Secondigliano.

Questo carcere ha le sue regole. Regola uno, le regole non si discutono. Non perché sia vietato, ma perché non c’è niente da discutere. Come l’esistenza di Dio, per capirsi. Immaginate di poter discutere una regola come “non si possono mostrare ai detenuti foto di assembramenti”? È saltata fuori una volta che avevo portato a mio padre delle foto di persone a lui care, scattate a un incontro pubblico sulla sua storia. E così via. Le regole prevedono che il detenuto possa ricevere quattro visite al mese, ciascuna di tre persone al massimo, tutti familiari, o persone di strettissima e certificata relazione, ciascuna visita della durata di un’ora. Le visite possono diventare sei, se il detenuto ha tenuto una buona condotta durante il mese, guadagnandosene due premiali. Per avere le visite premiali però bisogna fare domandina. Parla così, il carcere, dice “premiali”, e “familiari”, e dice “domandina”. Un misto continuo di burocratese da motorizzazione civile e linguaggio da asilo nido.

Di Poggioreale ho visto poco tempo fa in tv. Il collega Andrea Postiglione ha fatto la notte per riprendere all’alba del giorno di visite, l’umanità che si accalca davanti alla porta verde pittata di recente (qualche anno fa spararono ad un boss appena uscito e i proiettili segnarono anche l’ingresso blindato della casa circondariale). A Secondigliano invece ci sono tornato poche settimane fa: presentavano un progetto per i detenuti, gli fanno zappare la terra e crescere piantine per le aiuole comunali. Tutto bello, poi quando mi sono avvicinato ad uno di loro, un “fine pena mai”, l’inserviente mi ha bloccato: può tenere la zappa, sorridere e far foto, ma non può parlare. Alcuni amici mi dicono che ora alle visite di “ispezione” che i consiglieri regionali e i deputati possono effettuare nelle carceri, bisogna dichiarare se si va con un giornalista. Bisogna dirlo prima, se c’è uno che l’indomani scriverà dell’inferno carceri. Così magari gli fanno fare il giro più bello.