Quelli che, 2013 edition

Questo blog esiste dal 2006 ed è sorto sulle ceneri di un blog ospitato su Splinder, dal 2001. Se ne deduce, facendo i conti di questa fine 2012 che nel 2013 saranno 12 anni che tengo un blog. Certo, scrivo di meno: colpa della pigrizia e dell’attaccamento a twitter e facebook che rende difficile concepire pensieri superiori alle due righe anche per chi con le parole ci lavora.

Però c’è un rito cui non vorrei rinunciare, nato tempo fa, in onore alla più bella Smemoranda mai concepita:

Quelli che… cazzo c’è la crisi. Pure quest’anno?
Quelli che… la carta è morta ma col web non si guadagna.
Quelli che… dal precariato si esce
quelli che… all’uscita c’è il precariato.
Quelli che… la Cigs
Quelli che… parààà parapààà parapapappappà

Quelli che… Non dovevi lavorare per la politica
Quelli che… Dovevi fare la politica, tu!
Quelli che… dovevi fare il comico.

Quelli che… Yes I know my way… ma nun è addò m’e purtato tu.
Quelli che… Dovresti farci un pezzo
Quelli che… Ci hai fatto un pezzo?
Quelli che… Ma poi, quel pezzo?
Quelli che… Continuano a crederci, sempre.

Un sentito ringraziamento a tutti gli amici che mi hanno sopportato. L’età avanza e non è facile tenermi buono, mi rendo conto. Grazie anche ai meno amici (per non dire nemici): anche se l’età passa per loro è impossibile tenermi buono.

Il concetto di amicizia e il parametro Harrods

Quando sono in viaggio per svago mi piace – come a molti penso – stare in giro, camminare e guardare, ascoltare le parole in una lingua che non è mia (mi piaceva anche molto mangiare, un tempo). E così finisce che l’albergo lo uso solo per dormire.
Ricordo che una volta a Londra finii ai grandi magazzini Harrods e una birra qui, una costosa acqua gassata lì, ecco, dovevo proprio pisciare. Andai nei lussuosi bagni di Harrods. Non so se vi sono mai capitati i cessi dei luoghi pubblici a Londra, a me fino a quel momento era sempre andata male. Una volta in aeroporto sempre per quel fatto di tracannare litri d’acqua mi trovai tipo una specie di Bin Laden seduto sulla tazza, con la porta aperta. Era la prima volta a Londra e, devo dire, non fu un bell’impatto.

Insomma, andai nella toilette di Harrods e c’era un inserviente, vestito bene, un usciere dei cessi serio e dignitoso. Mi salutò con un cenno del capo prima di entrare “in cabina”. Io entrai, feci quello che dovevo fare e uscii. Una volta fuori lui mi fece un altro cenno di approvazione con la testa. Andai a lavarmi le mani e lui mi indicò dov’era il sapone e dove potermele asciugare. Feci quello che dovevo fare, lui annuì di nuovo (lo faceva a tutti, non è che gli ero particolarmente simpatico) e poi, il tocco di genio. Aveva un flaconcino di profumo e mi chiese se gradivo un poco di questo profumo sulle mani. Così l’usciere dei cessi mi spruzzò la delicata essenza e poi, prima di congedarmi, mi saluto con un «Have a good day».

Ripensandoci, al ritorno in Italia, realizzai che l’usciere del cesso di Harrods aveva fatto molto più di quanto tanti presunti amici avevano fatto per me in tutta la loro vita.
E così da allora applico il parametro Harrods all’amicizia: se ha fatto meno dell’usciere dei cessi, beh, non puoi definirlo proprio tuo amico.

Il migliore dei tempi, il peggiore dei tempi

Non so se qualcuno si sia mai chiesto quanta depressione abbia portato in Italia, nella mia generazione, in quella precedente e in quella successiva, il fatto di essere rimasti senza lavoro o senza punti di riferimento per il futuro.

Non ho un osservatorio privilegiato, eppure quel che vedo tutti i giorni mi basta. Tristezza a palate che basterebbe metterci sotto “Street of Philadelpia“.

Non parlo di piccole nevrosi, dei cedimenti quotidiani visibili sulle nostre facce, fragili display di emozioni, fatti che ormai danno per scontati e infiliamo d’ufficio nella categoria “stress”. Parlo di quelle cose che ti acchiappano alla bocca dello stomaco mentre sali a casa la sera e pensi a domani. Quelle che diventa difficile perfino fare una telefonata, perfino spiegare cose ovvie, un senso di impotenza che prende alla bocca dello stomaco e rende complicate e drammatiche cose formalmente facili.

Insomma, hai presente quei giorni che ad un certo punto, camminando, devi trovare un punto di riferimento in strada – un salumiere, una edicola, una pubblicità molto visibile – perché manco sai dove stai?

Tutte queste cose le ho viste, le ho sentite, me le hanno raccontate. Possibile che nessuno, parlando di precari, choosy, generazione, contrattualizzazione, abbia mai pensato al tasso di infelicità che genera tutto ciò, concentrandosi sull’economia, sul Pil, sulle percentuali? Ma dov’è scritto che dobbiamo essere infelici, aspettando la stabilizzazione, il reintegro, la cassa integrazione, il sussidio di disoccupazione?

Ascolto un sacco di gente sui temi del lavoro e non riesco più a parlare con le persone che non pensano alla felicità quale sfuggente linea di traguardo da farsi sfuggire, sorridendo e cercando di riacchiapparla. I più illuminati mi parlano spesso di decrescita felice. E poi pure quella è diventata un movimento con le regole, le assisi, le strutture, un ragionamento. Io invece parlo proprio della felicità, quella classica di Trilussa:

C’è un’ape che se posa
su un bottone di rosa:
lo succhia e se ne va…
Tutto sommato, la felicità
è una piccola cosa.

Voglio di più di questi anni amari

Al supermarket uno dei ragazzi che mi ha colpito da subito. Parla più lingue (al mio supermercato si fermano spesso francesi e inglesi evidentemente istruiti sul come spendere meno per un panino) e non si esprime come gli altri. Tra uno yogurt e due etti di tacchino te ne accorgi, questione di scelta delle parole.
Il ragazzo sta alla frutta. Nel senso materiale del termine. Io ho capito che quanto minimo ha una laurea.

Non giudicatemi male: penso che qualsiasi mestiere se fatto onestamente abbia dignità. Però colpisce vedere una persona che – per motivi a me ignoti – fa un lavoro diverso da quello per il quale ha studiato. Anche qui: non fraintendetemi. Non sto dicendo che il mercato può sopportare milioni di scienziati della comunicazione o scienziati politici o filosofi della scienza. Dico che mi sorprende vedere il ragazzo con la barba pesarmi il melone giallo (nonostante io cerchi disperatamente di servirmi da solo lui arriva e pesa: è il suo lavoro). Mi sento imbarazzato. Lo ero allo stesso modo quando il ragazzo del bar, ucraino, mi spiegò che era un ingegnere chimico. E io che sono soltanto un mezzo chimico (nel senso di diploma) non riuscivo più a comportarmi allo stesso modo con lui.

Il chimico e il poliglotta con caffè e verdura in mano che pensano, ogni giorno? Soffriranno questa condizione o penseranno che sì, in fondo è tutto sbagliato ma almeno un lavoro c’è, uno stipendio – magro – a fine mese c’è?

È la distruzione dei sogni che mi opprime: pensavo fosse più forte questo sentimento nell’adolescenza e invece lo sento più intenso oggi, a 35 anni suonati. Delle due l’una: o sto ringiovanendo o questo sentimento di oppressione e questo tanfo di morte di sogni pervade l’aria, come mai finora.

Dieci anni senza Pierangelo Bertoli

Seduto sul letto, con il libretto dei testi in mano perché era bello ascoltare e leggere, vedere come veniva bene esprimere quei concetti con la musica e il suono di una chitarra. Andare ad un concerto e prima dell’esibizione vederlo lì, al centro, a parlare con chi gli voleva bene e apprezzava la sua musica.
La stessa musica che non passa facilmente per le radio – non è mai accaduto, nemmeno per le sortite sanremesi – ma che è fortunatamente disponibile su Youtube, così come i testi.
Scopritelo, Pierangelo Bertoli, amatelo: a 10 anni dalla sua morte i pezzi che compose e cantò fino alla fine, sono talmente d’attualità da sembrare scritti ieri.