La non banalità di un crimine

Questa qui è una delle parti finali de “La banalità del male” di Hannah Arednt. Commentando la condanna a morte del criminale nazista Adolf Eichmann, “l’architetto della Shoah”, Arendt dice che uno dei problemi di quel processo fu proprio il dover introdurre il concetto  “crimine contro l’umanità” all’interno del sistema  di valutazione del crimine. Scrive la Arendt:

Una mattina, a Gerusalemme, mi portarono allo Yad Vashem, il museo della Shoah. Più che un museo, un memoriale, un viaggio opprimente e doloroso. Nel Giardino dei Giusti cercai gli italiani: c’erano, erano tanti.
Non c’è una morale nè una conclusione, in quel che scrivo su quest’argomento.
La frase di Hannah Harendt che ho sottolineato dovrebbe essere scolpita sulla testa dei signorsì di partito, sulle borse dei portaborse: «In politica obbedire e appoggiare sono la stessa cosa».

OSTalgie

Con questo  bel neologismo Antonio Sofi ha etichettato i racconti pubblicati su Webgol e scritti da chi visse in prima persona la caduta del Muro: invito chi passa da queste parti a leggerli.
La mia l’ho già detta qui, riguarda tutti i muri che ho visto, da Berlino a Ramallah. E nello spirito della OSTalgie, una colonna sonora forse poco conosciuta, ma significativa.

War Games, oggi come ieri

Uno pensa che il Defcon sia roba da Guerra Fredda, una faccenda da “War Games”. E invece gli Stati Uniti misurano ancora così quanto sono vicini alla pace ma soprattutto alla guerra. Non solo: scopri pure sul sito del Norad (sì, è proprio il leggendario quartier generale militare scavato nelle Cheyenne Mountain del Colorado) che mentre i militari sono a Defcon 4, cioè in tranquillità relativa, negli anni sono nati altri indicatori di sicurezza nazionale, che ora sono puntati su rischio elevato a causa del terrorismo. Insomma, siamo nella stessa situazione di panico di quando nel film il ragazzo entra nel cervellone informatico e inizia a giocare alla Guerra Termonucleare Globale.

You’ve gone to the finest school all right, Miss Lonely

Capisci che qualcosa è cambiato quando il Sole 24 ore, il giornale delle banche e degli industriali, allega al quotidiano il film “Wall Street” e spiega perché Gordon Gekko era un pezzo di merda e nel giro di vent’anni  i Gekko reali hanno affamato il Globo.

Capisci che qualcosa è cambiato quando vai ad Acerra – il mio treno passava di lì –  e ti accorgi che i cerrani guardano  l’inceneritore con orgoglio. In una terra ammorbata, il cui frutto è malato se non morto, lo sbuffetto bianco dell’inceneritore è l’unica cosa viva. Una volta era l’odore acre della Montefibre, il grasso e l’olio sulle tute della vicina Alfa di Pomigliano, il luppolo della Birra Peroni di Miano o la colata all’Italsider. Quelle ciminiere erano religione: campanili e minareti urbani.

Nel treno diceva il fratello al fratello, seduti davanti a me: «Lo vedi?  Il fumo va direttamente ‘ncielo. Nun fa male». E in cielo andava pure la mia preghiera, qualche decina d’anni fa, quando, studente superiore di Chimica industriale, l’unica visita guidata che feci, fu quella della fabbrica di polimeri: ci mandarono in gita in mezzo agli operai che bestemmiavano, mangiammo in mensa il primo scotto, i grissini e le pere molli. Una specie di battesimo infernale.

****

La storia di chi ha la mia età non l’ha scritta nessuno. Qualche giorno fa ho visto un libro, “Generation X“, che parlava di trentenni. Volevo comprarlo, l’ho aperto e ho trovato tutta roba americana, lontana anni-luce dalla mia realtà. L’ho lasciato lì. L’unico che mi ha dato un poco di soddisfazione di recente è “Napoli dei molti tradimenti” di Adolfo Scotto di Luzio, ma lui è del 1967, ha dieci anni esatti più di me e per quanto mi possa piacere – ha abitato dove abito io, ha vissuto musica, “costumi”  e speranze degli Ottanta – no, decisamente non è più un trentenne.

Qualche tempo fa il Corriere del Mezzogiorno si inventò a Napoli  una specie di club dei trentenni pronti a cambiare il mondo. Io non penso che quell’idea sia durata più del normale ciclo d’utilizzo della carta di un quotidiano (stampa, lettura, cestino o incartapesce). Mi guardo intorno  e vedo il deserto: lavoro con persone più grandi o molto più piccole. Politicamente, socialmente e culturalmente la classe ’75-’79 fa veramente schifo, almeno a Napoli.
Siamo arrivati nel posto sbagliato al momento sbagliato, avevano inventato già tutto e il contrario di tutto. Una volta Paolo Rossi in un monologo di quel meraviglioso programma che era “Su la testa”,  diceva: «Ci avete rubato le speranze dei nostri padri, per questo non vi perdonerò mai».
Ora dovrei trovare la formula per chiudere il pezzo, ma davanti questo scenario di confusione, manco un dipinto di Turner, ci sta meglio questa qui.