Fabio che conservava il passato per proteggere il futuro

faBIO_MANISCALCO_ARCHEOLOGO

La pace non è solo qualcosa da costruire, ma conservare qualcosa che qualcuno ha costruito, magari mille anni prima. Di questo si occupava Fabio Maniscalco e probabilmente il novantanove per cento di questa città di merda nemmeno lo sa che ha avuto un archeologo di 43 anni candidato al premio Nobel per la pace, un giovane che si è occupato fino all’ultimo della protezione dei beni archeologici nei paesi di guerra, ucciso da una passione: ma lui che pure era persona istruita, non poteva saperlo che in Bosnia esportavamo democrazia e proiettili all’uranio impoverito.

Ho conosciuto Fabio Maniscalco a Ramallah, qualche anno fa. Quando il torpedone si è “allugato” verso Betlemme siamo andati a piazzare con una delegazione una croce blu di carta su un mosaico di chissà quanti secoli, tra macerie e dei bambini che, ignari, giocavano con una vecchia palla di cuoio. L’ultimo contatto è stato giusto un anno fa: presentava uno dei suoi lavori sui tesori dell’arte a rischio in paesi dilaniati dai conflitti. Una battaglia perdente e per questo bellissima, avvincente, degna d’appoggio e considerazione. Mi scrisse grazie per un pezzo sul giornale, era malato già, l’avrei rivisto solo in un servizio televisivo. Sarebbe bello poter utilizzare il passaparola per i suoi libri, rilanciare in ogni modo quel che faceva, in tutt’Italia. Ma questa è la città dove si scordano Eduardo e Benedetto Croce, non mi faccio illusioni.

Est Jerusalem

Questa storia raccontata da Luca Sofri m’ha riportato al mio ricordo di Gerusalemme e a quello che scrissi appena ritornato qui. Sono strani giorni…

Bianca.
Bianca è la pietra di Gerusalemme. Città vecchia, downtown, Jaffah street. Porta di Damasco, spianata delle Moschee.
Bianca è Tel Aviv, e la mattina di polvere e caldo.
Passaport, “avete passaporto-carta d’ingresso?”.
Bianca è la faccia degli ebrei ortodossi sotto lo scafandro nero e i riccioli di barba. Foto, foto. No foto. Shalom
Bianca è la coperta di notti calde ed è bianca Giordana, che parla di sionismo e ci chiede: “Perché?” E poi ci da’ le risposte. Le sue.
Bianco è la salita verso la città antica. Bianco è il muro di sicurezza. Bianco, grigio. Separa la terra dalla terra. Una strada dal resto di una strada, una scuola dal resto di una scuola.
6.30 am: Wake up, wake up.
Bianco è il marmo e la doccia. Bianca, o quantomeno chiara la  maglietta.
Morbida e lunga la notte nel quartiere russo: fuck in ass, italian. Narghilè?
Ma è un istante.
Bianco è l’Ymca, il neon nel suk arabo. Bianca è la casa del mufti della Città Santa.
Bianca è la pietra del museo dello Yad Yashem.
Coroncina? Terrasanta? Twenty nis. Cinque dollari.
Bianca è la mattina in Moschea e Sinagoga. Bianco il giro intorno al Santo Sepolcro. Bianco il campanile.
Bianco il movimento, lo status quo. Muoversi è una regola. Chi non lo capisce, è perso. Bianca è la tomba di
Yitzak Rabin, la sua.

Nera.
Nera è la terra brulla dei beduini. Salam. Nera è l’ombra della Moschea delle pietre, dalla cupola d’oro. Neri gli altoparlanti del minareto. E la voce dei muezzin: allahu akbar, ašhadu an la ilah illa Allah..
Nera è la Muqqada e la keffiah a scacchi sulla tomba di Yasser Arafat. Neri i ragazzi di Ramallah.
Neri gli occhi della donna più bella del mondo: la ragazza soldato di un checkpoint verso i Territori. Diciannove anni, non di più. Orecchini e mitra.
“Passaporto? Ciao. Ciao”.
Nera è la casa bruciata ed esplosa. Neri i buchi sui corpi dei ragazzi uccisi a Nablus e gli occhi dei bambini malati di cuore. “Dobbiamo portarli via di qui, ma non hanno il passaporto”.
Nero è il cecchino sulla casa. Neri i computer. “Dobbiamo scrivere, è tardi. Cazzo”.  Dolci, le raffiche di mitra dalla vallata.
Nera è Betlemme e la Natività. Nera l’ombra del muro di separazione che divide vite da vite. Possibilità da speranze.
Nera è la tomba di Lea Rabin. La sua.
Nero il fango del Mar Morto, nero di notte è il ritorno e il buio di chi sa che ora è tutto diverso.