Il muro di Berlino è durissimo. Se cerchi di toglierne un poco per portarlo a casa e non hai che le nude mani, riesci appena a tirare schegge d’intonaco. Quando facevo forza per strappare un souvenir mi vergognavo perché pensavo che dovevano avere una gran forza e una gran rabbia – superiore in ogni modo alla mia – i giovani che venti anni fa sfondarono la pietra rinforzata col malto e il cemento, piegarono i todini d’acciaio e la Storia.
A Gerusalemme il muro è bianco, lucido, ha due facce anche nel nome. Gli ebrei lo chiamano Kotel, gli arabi al-Buraq. Vorrebbe proteggere quello che contiene, finisce per renderlo più vulnerabile. Non ricordo che scrissi sul fogliettino della preghiera infilata fra un mattone e l’altro. Io avevo sfondato un altro muro, quello dei diciotto mesi necessari a fare l’esame di giornalista e due giorni dopo «dettavo un pezzo» dall’estero senza averne titoli nè capacità. Lo lesse Alberto che mi chiamò dall’altra parte del mondo per dirmi che gli piaceva, è morto senza che lo potessi ringraziare per aver avuto la cura di correggerlo e piazzarlo in una pagina.
Le canzoni dei Pink Floyd e degli U2 mi rimbombavano in testa, quando passai per il muro tra Palestina e Israele. Gigantesche lance di cemento affondate nella terra. Lo ricordo lontano, liscio e freddissimo, a vederlo sembra inutile un muro nel deserto, come una freccia di disperazione, scagliata nell’aria. Ho sorriso vedendo la recita del Checkpoint Charlie di Berlino; a Calandia passavano carne umana dolente e merce esposta al sole dietro le reti, sotto i fari delle torrette. Noi passammo senza controlli, veloci, da privilegiati.
Capisci che ci sono muri nati per dividere e altri eretti quasi con amore, aspettando di aprire una breccia, prima o poi. Mura distruttive e altre nelle quali si costruisce qualcosa, come quelle di una casa. Nella mia ce n’è uno, il più grande, che non ha mai spesso di gonfiarsi e sfaldarsi, come fosse vivo e respirasse. Una disperazione di tufo: ricordo il giorno che tirammo via tutto l’intonaco umido, lasciando solo i mattoni gialli. Io ero piccolo, pensavo che a togliere un solo blocco di pietra, sarebbe venuto giù il palazzo. Non accadde e dovetti iniziare a fare i conti con la solidità delle cose che – nonostante un mattone in meno – vanno avanti.