Muri 1989-2009

Il muro di Berlino è durissimo. Se cerchi di toglierne un poco per portarlo a casa e non hai che le nude mani, riesci appena a tirare schegge d’intonaco. Quando facevo forza per strappare un souvenir mi vergognavo perché pensavo che dovevano avere una gran forza e una gran rabbia – superiore in ogni modo alla mia – i giovani che venti anni fa sfondarono la pietra rinforzata col malto e il cemento, piegarono i todini d’acciaio e la Storia.

A Gerusalemme il muro è bianco, lucido, ha due facce anche nel nome. Gli ebrei lo chiamano Kotel, gli arabi al-Buraq. Vorrebbe proteggere quello che contiene, finisce per renderlo più vulnerabile. Non ricordo che scrissi sul fogliettino della preghiera infilata fra un mattone e l’altro. Io avevo sfondato un altro muro, quello dei diciotto mesi necessari a fare l’esame di giornalista e due giorni dopo «dettavo un pezzo» dall’estero senza averne titoli nè capacità. Lo lesse Alberto che mi chiamò dall’altra parte del mondo per dirmi che gli piaceva, è morto senza che lo potessi ringraziare per aver avuto la cura di correggerlo e piazzarlo in una pagina.

Le canzoni dei Pink Floyd e degli U2 mi rimbombavano in testa, quando passai per il muro tra Palestina e Israele. Gigantesche lance di cemento affondate nella terra. Lo ricordo lontano, liscio e freddissimo, a vederlo sembra inutile un muro nel deserto, come una freccia di disperazione, scagliata nell’aria.  Ho sorriso vedendo la recita del Checkpoint Charlie di Berlino; a Calandia passavano carne umana dolente e merce esposta al sole dietro le reti, sotto i fari delle torrette. Noi passammo senza controlli, veloci, da privilegiati.

Capisci che ci sono muri nati per dividere e altri eretti quasi con amore, aspettando di aprire una breccia, prima o poi. Mura distruttive e altre nelle quali si costruisce qualcosa, come quelle di una casa. Nella mia ce n’è uno, il più grande, che non ha mai spesso di gonfiarsi e sfaldarsi, come  fosse vivo e respirasse. Una disperazione di tufo: ricordo il giorno che tirammo via tutto l’intonaco umido, lasciando solo i mattoni gialli. Io ero piccolo, pensavo che a togliere un solo blocco di pietra, sarebbe venuto giù il palazzo. Non accadde e dovetti iniziare a fare i conti con la solidità delle cose che – nonostante un mattone in meno – vanno avanti.

La guerra di Natale tra Napoli e Potenza. Un racconto



Non poteva durare a lungo. Un razzo oggi, un missile domani… Napoli già sta piena di problemi ed ora si è aggiunta anche questa guerra, l’ennesima, in una città dilaniata. Loro,  (noi li chiamiamo i basilischi ) hanno colpito la provincia, ma sono talmente sfrantummati che non riescono manco a centrare gli obiettivi! Ad un certo punto noi (loro ci chiamano i camorristi)  abbiamo iniziato a rispondere, eh. E da qualche giorno su Potenza stanno  finalmente piovendo bombardamenti della contraerea vesuviana. Oh, roba chi-rur-gi-ca. Solo per distruggere gli avamposti terroristici avversari.
Ora io davvero non capisco com’è possibile che la si chiami guerra: questa è una legittima risposta dei napoletani ai potentini che ci attaccano e mettono a repentaglio le vite dei nostri cari con questi cazzo di razzi. Che poi sono gli stessi stock che hanno comprato alla Duchesca qualche anno fa.  Possibile che non gli abbiano
rifilato un pacco?

Effettivamente devo ammettere che nei giorni a venire i nostri c’hanno preso un poco la mano: la brigata Vesuvio ha raso al suolo la Torre Guevara perché pensava fosse una cosa comunista. In fondo non è che me ne freghi più di tanto, è solo che qui da Napoli si sente il rumore dei cingolati che preparano l’attacco di terra e non è che si dorme molto. Per non parlare del nuovo allarme  kamikaze. Loro vogliono incendiare le palme dell’Orto Botanico e scassare i vetri dell’Acquario Dohrn dove ci sono le tartarughe Caretta-Caretta. E vogliono pure pisciare sulla tomba di Virgilio a Piedigrotta. Un mio amico fuorisede mi ha detto che lì è un macello: dice che i missili Maradona hanno fatto vittime civili. Dico io: ma se a Potenza sono tutti kamikaze, come ci hanno correttamente insegnato a scuola, è logico che siano tutti pericolosi e che quindi non ci sia nemmeno un civile. E pensare che c’è chi non approva questo ragionamento: dice che c’era una scuola di Pace, da qualche parte, che metteva insieme da piccoli, i bambini di Napoli e quelli di Potenza. Se si amano da piccoli, impareranno a farlo anche da grandi, diceva la maestra. A me sembrano tutte stronzate, eh.

Io so soltanto che ora ci siamo intossicati Capodanno e la Befana e che il Papa invece di preoccuparsi di questa storia di Napoli e Potenza ha implorato una tregua tra Gaza e Gerusalemme! Che poi,  guarda la cosa strana, Napoli è distante da Potenza tanto quanto lo è Gaza da Gerusalemme; insomma sono quasi gli stessi chilometri.  Yosseph e Yousef (che poi sono entrambi Zì Peppe, ma uno è ebreo e l’altro è arabo)  mi ammoniscono severi. Dicono che però tra Gaza e Gerusalemme ci sono una miriade di check point.
Sorrido e li consolo dicendo che almeno loro sono fortunati a non sapere nemmeno cos’è, la Salerno-Reggio Calabria.

Est Jerusalem

Questa storia raccontata da Luca Sofri m’ha riportato al mio ricordo di Gerusalemme e a quello che scrissi appena ritornato qui. Sono strani giorni…

Bianca.
Bianca è la pietra di Gerusalemme. Città vecchia, downtown, Jaffah street. Porta di Damasco, spianata delle Moschee.
Bianca è Tel Aviv, e la mattina di polvere e caldo.
Passaport, “avete passaporto-carta d’ingresso?”.
Bianca è la faccia degli ebrei ortodossi sotto lo scafandro nero e i riccioli di barba. Foto, foto. No foto. Shalom
Bianca è la coperta di notti calde ed è bianca Giordana, che parla di sionismo e ci chiede: “Perché?” E poi ci da’ le risposte. Le sue.
Bianco è la salita verso la città antica. Bianco è il muro di sicurezza. Bianco, grigio. Separa la terra dalla terra. Una strada dal resto di una strada, una scuola dal resto di una scuola.
6.30 am: Wake up, wake up.
Bianco è il marmo e la doccia. Bianca, o quantomeno chiara la  maglietta.
Morbida e lunga la notte nel quartiere russo: fuck in ass, italian. Narghilè?
Ma è un istante.
Bianco è l’Ymca, il neon nel suk arabo. Bianca è la casa del mufti della Città Santa.
Bianca è la pietra del museo dello Yad Yashem.
Coroncina? Terrasanta? Twenty nis. Cinque dollari.
Bianca è la mattina in Moschea e Sinagoga. Bianco il giro intorno al Santo Sepolcro. Bianco il campanile.
Bianco il movimento, lo status quo. Muoversi è una regola. Chi non lo capisce, è perso. Bianca è la tomba di
Yitzak Rabin, la sua.

Nera.
Nera è la terra brulla dei beduini. Salam. Nera è l’ombra della Moschea delle pietre, dalla cupola d’oro. Neri gli altoparlanti del minareto. E la voce dei muezzin: allahu akbar, ašhadu an la ilah illa Allah..
Nera è la Muqqada e la keffiah a scacchi sulla tomba di Yasser Arafat. Neri i ragazzi di Ramallah.
Neri gli occhi della donna più bella del mondo: la ragazza soldato di un checkpoint verso i Territori. Diciannove anni, non di più. Orecchini e mitra.
“Passaporto? Ciao. Ciao”.
Nera è la casa bruciata ed esplosa. Neri i buchi sui corpi dei ragazzi uccisi a Nablus e gli occhi dei bambini malati di cuore. “Dobbiamo portarli via di qui, ma non hanno il passaporto”.
Nero è il cecchino sulla casa. Neri i computer. “Dobbiamo scrivere, è tardi. Cazzo”.  Dolci, le raffiche di mitra dalla vallata.
Nera è Betlemme e la Natività. Nera l’ombra del muro di separazione che divide vite da vite. Possibilità da speranze.
Nera è la tomba di Lea Rabin. La sua.
Nero il fango del Mar Morto, nero di notte è il ritorno e il buio di chi sa che ora è tutto diverso.