Giornalista precario, se il contratto è un concorso a premi (Sveglia!!1!)

Il giornalismo online è quasi sempre (in molti casi senza alcuna ragione) sinonimo di libertà. E questa millantata libertà spesso non prevede il diritto ad un equo pagamento. È una questione rispetto alla quale in Italia c’è un disinteresse enorme tra i cosiddetti “esperti” di editoria online. Gente che si eccita se Google cambia l’algoritmo e grida alla rivoluzione per l’editoria con l’arrivo di un nuovo tablet ma cui importa poco o nulla del fatto che molti editori, semplicemente, sfruttano il lavoro altrui, al pari dei caporali dei campi di pomodoro. E fin qui, l’antefatto della storia che voglio raccontare.

C’è un gruppo di siti il cui spazio web di punta si chiama “Italiano Sveglia si definisce «network dell’Informazione che racchiude i principali siti e blog dedicati alla notizia giornalistica libera e non strumentalizzata» e dichiara come obiettivo quello di «realizzare il più grande Notiziario presente sulla rete grazie all’aiuto di tutti coloro che amano scrivere articoli» che ha messo in piedi quello che secondo me è un esempio clamoroso di quello che in maniera un poco semplicistica viene definito “il far west” dell’editoria italiana in Rete. «Se possiedi una spiccata dote giornalistica ma non hai lo spazio adeguato per sfruttare il tuo talento, questo è lo spazio ideale per poter scrivere articoli e dare valore alle tue parole» si legge su “Italiano Sveglia”. Sono centinaia i siti web che propongono cose del genere. Questo, però, è particolare per un motivo: è un concorso a premi. E il primo premio è (rullo di tamburi) un «Contratto di collaborazione coordinata e continuativa per 6 mesi rinnovabile». Le regole sono semplici quanto sorprendenti (è un eufemismo): «Ogni articolo dovrà avere una lunghezza minima pari a 500 parole. Una volta terminato e inserito l’articolo, l’amministrazione controllerà che il testo sia conforme alle regole qui descritte riservandosi la facoltà di pubblicarlo o meno. […] Ogni articolo approvato e, di conseguenza, pubblicato fa guadagnare all’utente 10 punti premio, raggiunta la soglia minima di 100 punti il cliente potrà richiedere il suo premio scelto dal nostro catalogo premi». Tra i premi ci sono cellulari, tv al plasma, impianti stereo. Ma il primo premio è il lavoro: un contratto.

Si gioca sulla qualità dell’informazione: «Se anche tu credi di poter dare un’informazione migliore di quella attuale – si legge nel sito – mettiti alla prova e guadagna scrivendo, unisciti alla nostra squadra e realizziamo insieme il giornalismo del futuro». È paradossale, no? Chi non trae nemmeno il minimo per il suo sostentamento dovrebbe garantire (a  gratis) la qualità dell’informazione? È un discorso che fanno molte testate, anche più blasonate di questa.
Altra ambiguità: è giornalismo o no? «Questo sito non è una testata giornalistica ma un semplice blog di informazione» si legge. Eppure in “Termini e condizioni” si fa esplicito riferimento alla tipologia dell’articolo giornalistico, attività che in Italia è regolata da una serie di norme (belle, brutte, moderne, antidiluviane, ma ci sono e vanno rispettate). Infine, la tutela di chi scrive, innanzi alla legge: l’utente si impegna – fra le altre cose – a «non causare pregiudizi a terzi o ad altri Utenti». Che significa? È una clausola di manleva in caso di querele? E ancora: «l’Azienda si riserva il diritto discrezionale di rifiutare, rimuovere, modificare o adattare un qualsiasi Contenuto dell’Utente». Modificare e adattare a cosa? Per quale motivo?

La questione è complicata e non possiamo soltanto scrollare le spalle e attribuire tutta la responsabilità alla “modernità” di un mezzo vastissimo e sostanzialmente impossibile da controllare. Di controllori del giornalismo e di presunti tutori delle garanzie contrattuali e deontologiche di questo mestiere ce ne sono fin troppi: Ordine dei Giornalisti, Federazione Nazionale della Stampa, Autorità garante per le Comunicazioni. Sicuramente si tratta di enti con possibilità di verifica rispetto a determinate situazioni. Quando useranno finalmente questo potere di verifica, controllo e tutela dei lavoratori? Di vicende ambigue come queste ce ne sono migliaia. Vogliamo quanto meno allontanarle dall’idea che si tratti di giornalismo?

Caro Umberto Eco, fatti spiegare l’internet da qualcuno


Umberto Eco, aderendo a una corrente di pensiero ormai consolidata in certi intellettuali italiani, non è che mette internet sul banco degli imputati: la dichiara colpevole, la condanna alla pena capitale e poi non contento fa il ballo della morte intorno bruciando un magnetofono Magneti Marelli quale simbolo della corruzione dei tempi.

In questo pezzo pubblicato dall’Espresso, Eco sostiene che a causa dell’overdose di informazione disponibile su web «un’intera generazione rischia di crescere senza selezionare quello che legge». Parla facile lui che ha accesso a tanti canali informativi: molti di noi non saprebbero nemmeno come informarsi su determinati argomenti. Tuttavia la sua è una opinione, condivisibile o meno, ma autorevolissima.

È nell’esempio che Eco commette un errore clamoroso. Per dimostrare la sua tesi egli scrive quanto segue:

Sappiamo benissimo che molti libri vengono scritti da personaggi più o meno eccentrici, così come accade anche per tanti siti Internet. Se non ci credete, andate a vedere “nonciclopedia.wikia.com/wiki/Groenlandia” dove si dice: “La Groenlandia è un’isola situata in un punto del globo terrestre che, se esistesse davvero, confermerebbe l’ipotesi che la Terra è quadrata. E’ l’isola più popolosa al mondo per quanto riguarda il ghiaccio…. […]
Come fa un ragazzo a sospettare che l’autore di questa notizia stia scherzando, o sia un personaggio eccessivamente stravagante?
Così può accadere coi libri. Difficile che un editore accetti di pubblicare notizie del genere, se non precisando sulla copertina o sul risvolto che si tratta di una raccolta di allegri paradossi. Ma quando non ci fosse più alcuna mediazione a dirci se un libro va preso sul serio o no?

Ecco. Dico io, ma quando manda i pezzi nessuno glieli rilegge? No perché anche un bambino sa che Nonciclopedia è universalmente riconosciuto come un sito di satira, di paradossi, scherzi. Insomma, un sito che le spara grosse. Sarebbe bastata una ricerchina su google per capirlo:

A questo punto delle due l’una: o ha buttato lì la prima cosa che trovava, senza prendersi la briga di controllare o semplicemente la tesi fa acqua da così tante parti da sembrare un colabrodo.

PS: le fesserie durante le prove orali (di maturità, di università, di giornalismo) gli esaminandi le hanno sempre dette, con o senza internet.

Update: mi segnalano la pagina di Nonciclopedia su Umberto Eco. Ecco, manco quella s’è letta.

Non è giornalismo se non alzi il culo (del cronista contemplativo)

«Vige ancora, anche in questo pseudo giornalismo decotto fatto diinterviste via fax e vacui pettegolezzi sul menu delle cene a casa di Amato o di Berlusconi, la regola che un vecchio vice direttore della Stampa mi ripeteva quando io recalcitravo all’idea di salire su un altro aereo e andare e vedere cose che già avevo visto mille volte. “Caro mio tromboneggiava il signor vice direttore che in vita sua non si era mai allontanto dalla provincia di Torino altro che per andare al mare sulla Riviera Ligure – i pezzi scritti sul posto riescono sempre meglio, chissà perché».
Vittorio Zucconi – Parola di giornalista

Succede che al “The Daily”, il primo quotidiano per tablet iPad, voluto da Rupert Murdoch, il direttore con la franchezza che un direttore deve avere, dica ai suoi redattori di muovere il culo e cercare notizie.
Lo dice nell’unico modo accettabile da un direttore: ordinandolo ma al tempo stesso facendoti sognare il giorno in cui ti troverai una vera notizia fra le mani (la traduzione è di Massimo Russo):

Oggetto: Le notizie
Ragazzi, l’Egitto è archiviato, tempo di concentrasi sulla copertura dell’America
Abbiamo bisogno di andare lì fuori e trovare storie da tutto il paese – non solo di ravanare il web e le agenzie, ma di uscire e raccogliere notizie. Trovatemi una storia umana stupefacente in un processo che gli altri  non stanno raccontando. Trovatemi un distretto scolastico dove si combatte la battaglia della riforma e raccontatemi le vicende delle persone coinvolte. Trovatemi una città che sta per essere accorpata a un’altra  per insolvenza. Trovatemi nella capitale di un qualsiasi stato una storia di corruzione a malaffare  che nessuno abbia scovato prima. Trovatemi qualcosa nuovo, diverso, esclusivo e grandioso. Trovatemi il cane più anziano d’America, o l’uomo più ricco del Sud Dakota. Costringete l’addetto stampa della Casa Bianca a scaricare per la prima volta il Daily perché tutto il branco gli  chiede di una notizia che abbiamo trovato noi. Piazzatevi davanti a una storia e rendetela nostra – forzate il resto dei media a inseguirci.

Sono le buone storie che faranno ritornare le persone al Daily – abbiamo messo insieme una squadra con i controc…, mostriamo al mondo cosa siamo in grado di fare.

Vale la pena di sottolineare alcune frasi: «Piazzatevi davanti a una storia e rendetela nostra – forzate il resto dei media a inseguirci». Per costringere magari l’addetto stampo della Casa Bianca a scaricare per la prima volta il Daily.
Mi guardo intorno, nel contesto italiano e non vedo nulla non di così ambizioso (è pur vero che qui l’investimento l’ha fatto “Shark” Murdoch, dio dell’editoria globale).  A parte il gigantesco lavoro della rete che macina, da inutile criceto sulla ruota, a parte i contributi dei singoli, più o meno famosi e più o meno conosciuti nel mondo della carta stampata o soprattutto della televisione, ma c’è qualcuno di questi nuovi giornali italiani su web che si prenda la briga di dire: ecco, da oggi noi facciamo incazzare i pezzi grossi?
È una domanda retorica, lo so.  Però nemmeno a provarci.

Qui il massimo che si vede in giro è il giornalismo “contemplativo”: vedo accadere le cose, rimpasto le notizie ne traggo un succo che dev’essere il più possibile provocatorio altrimenti non mi si caga nessuno. E il massimo dell’inchiesta sono un paio di foto, una scorrazzata su Google Earth e due documenti pdf  presi da una sconosciuta banca dati della Papuasia. Anche questo può servire a fare un’inchiesta, per carità. Ma in quanti casi? Statisticamente, quanti sono i casi in cui quest’approccio viene meglio della classica suola delle scarpe consumata per “andare, chiedere, verificare, scrivere”?

Attenzione: qui non stiamo dibattendo del “ritorno all’inchiesta” un tema che più abusato non si può. Parliamo del modo di interpretare il lavoro d’un cronista di medio livello con contatti “di base” e un discreto senso della notizia. Insomma, il profilo medio del giornalista che si rispetti.

Diremmo «con infamie e con lode», trattandosi d’un cronista 😉

E chi l’ha detto che poi non è salutare ogni tanto ritornare al punto di partenza? Aleks Krotoski sul sito del Guardian analizza l’esperienza di Peter Beaumont, inviato di guerra. Beaumontm, giornalisticamente formato prima dell’avvento del web, ha integrato come tanti l’uso delle nuove tecnologie con il suo modus operandi tradizionale.
Quando si è trovato al Cairo, in Egitto, con il black-out totale della connessione internet, dice che è stato come fare un passo indietro nel tempo:

«Siamo tornati a quello che eravamo soliti fare: scrivere la storia al computer, andare al centro commerciale, stamparlo e dettare per telefono. Non dovevamo preoccuparci di quello che c’era su internet, abbiamo solo dovuto preoccuparci di quello che stavamo vedendo. È stato assolutamente liberatorio».

Wikileaks, un documentario

Here’s a well-produced (even in rough-cut form) documentary on Wikileaks by Swedish network SVT, published on YouTube in 4 parts. It covers quite a bit of the history of the organisation, the lessons it learned and the partnerships it made along the way – all of which provide valuable insights for any student of journalism as a practice or a cultural form, not to mention a more complex understanding than most coverage of the current situation provides. It really is essential viewing. (via Paul Bradshaw)