Il premio di giornalismo sponsorizzato dalla multinazionale chiede il pezzo su commissione

Il premio ‘Ischia’ di giornalismo è quello che nelle sere d’estate allieta la seconda serata delle reti Rai. Inquadrature di prestigiose, eleganti, sudate platee che dopo una giornata passata alle Terme dell’isola verde si spellano le mani per il grande reporter americano anziano, per il grande ex direttore del tiggì, per la grande inviata di guerra tutta truccata.

Quest’anno al premio-base è stato affiancato un bando per i giovani cronisti. Ma mica tutti i giovani, no eh. solo gli allievi del Master in Giornalismo del biennio in corso (a.a. 2011‐2012/2012‐2013).

Il premio è sponsorizzato dalla Coca Cola, nota multinazionale delle bibite gassate e zuccherate (no vabbè, c’è anche Coca cola Zero). I partecipanti   – dunque già un gruppo selezionatissimo e ristretto – hanno dovuto letteralmente scrivere un pezzo su commissione: il bando chiedeva espressamente un articolo giornalistico sul tema “Il rapporto tra le multinazionali e il territorio campano: Il caso Coca‐Cola HBC Italia a Marcianise”.

Possibile che agli studenti di una scuola anziché insegnargli l’etica, la deontologia, la capacità di dire no alle marchette li si gratifica e premia quando una multinazionale chiede loro un articolo su commissione?

Possibile che nessuno abbia protestato? Nessuno, sindacato dei giornalisti, ordine professionale, ha visto una stranezza in tutto ciò? Veramente siamo diventati delle piccole Barbie formato reporter?

 

Un giorno tutto questo studiare dai manuali di giornalismo (forse) ti sarà utile

Come tutti i cronisti che non hanno frequentato master post laurea o scuole di giornalismo, nutro profonda ammirazione verso coloro i quali riescono a spiegare cose che io sono riuscito a imparare solo guardandole, comprendendole e imitandole (meglio o peggio non sta a me dirlo). Dunque i manuali di giornalismo e di scrittura sono la mia passione. Ne ho molti. Dal Murialdi al Papuzzi a quelli di Sergio Lepri e Furio Colombo. Insieme ai manuali ci sono poi tantissimi libri sul mestiere che andrebbero letti: quelli che raccontano l’esperienza (uno su tutti “Parola di giornalista” di Vittorio Zucconi) o quelli scritti da giornalisti. Mi viene in mente un solo nome su tutti: Oriana Fallaci.

La premessa è per dire che non ce l’ho coi manuali. Li leggo e voglio trovarci risposte alle domande. Ho sfogliato il nuovo manuale di giornalismo Laterza, autori Alessandro Barbano e Vincenzo Sassu; il testo è per ammissione degli stessi autori destinato agli studenti dei master in giornalismo e delle scuole di scrittura. È stato mandato in stampa nel febbraio 2012. Sembra un particolare di poco conto ma a me interessa, ora spiego perché.

Il tomo affronta la «crisi delle aziende editoriali e la transizione verso il mercato delle nuove piattaforme digitali» e si vanta d’essere «il primo manuale di giornalismo che tiene conto della scrittura giornalistica e dell’organizzazione del lavoro nell’era dell’integrazione tra modello cartaceo e modello virtuale». Lo sfoglio. A parte quello di cui mi aspetto si parli (come si fanno i titoli, le varie tecniche d’intervista) scorro alla ricerca della deontologia professionale. E quel che temo si rivela realtà. Nell’analisi del “caso italiano”, non trovo quello che per me avrebbe fatto la differenza. Lo cerco alla voce “etica”. Niente.

Di cosa si tratta? D’un minimo accenno all’ultima nata tra le carte deontologiche dell’Ordine dei Giornalisti: la Carta di Firenze. Quella varata allo scopo di sanzionare chi nelle redazioni (faccio l’esempio più banale) si rivela complice di un editore che non paga e/o sfrutta i suoi collaboratori. La Carta di Firenze, nata nell’ottobre 2011, è attiva dal gennaio di quest’anno.

Basta questa mancanza (omissione o disattenzione, magari ce lo diranno gli autori) a fare del manuale in questione un cattivo libro? Ovviamente no. Ma la storia fornisce l’opportunità per una discussione sulla struttura di questo tipo di libri. È ovvio che un manuale non ti insegna a fare il giornalista, il chirurgo o il prestigiatore. Alla base teorica occorre necessariamente associare pratica ed esperienza e tutta una serie di specializzazioni. Tuttavia mi chiedo: è giusto consegnare a un aspirante giornalista dei testi di base che prescindano totalmente dalla questione lavorativa? Le tutele che ha il cronista nella difesa della sua retribuzione sono inutili nella formazione? È giusto o no fornire solo una impostazione teorica? È più importante parlare della penny press o del fatto che c’è una carta deontologica, uno strumento (buono, cattivo, efficace, inefficace non sta al manuale stabilirlo ma è suo dovere documentarlo) a tutela del giornalista?

Io sono convinto che retribuzione e qualità del giornalismo sono strettamente legati. O crediamo davvero che guadagnare tre euro ad articolo garantisca la libertà d’un cronista? Quel pezzo vale tanto quanto lo si è pagato. E non perché il giornalista abbia un metro e un’etica diversa a seconda di quanto lo si paga, ma semplicemente perché retribuirlo tre, cinque, sei euro significa non dargli la possibilità di documentare, telefonare, passare 5-6 ore a curare lo sviluppo di una news senza che questo non rappresenti un’operazione a perdere.

Ora capite perché è conveniente per molti sbandierare le foto di Woodward e Bernstein, di Enzo Biagi e Indro Montanelli? Perché nel mito della “stampa, bellezza” venduto a scopo di lucro sguazzano certe scuole di giornalismo (a pagamento), certi corsi specialistici (a pagamento) certe arrembanti riviste che urlano al Watergate e poi finiscono a farti scrivere (gratis) dei fattarielli del loro consigliere comunale di riferimento. Io quella famosa frase la riscriverei: «È la stampa, bellezza. Sì ma tu non fare il pollo».

Per concludere. Se un manuale vuole fornire «un sapere teorico-pratico integrato per chi voglia operare sulla carta stampata, sul radio-televisivo e sulle diverse piattaforme digitali presenti in Rete» deve cambiare approccio. Se un master post laurea vuole formare i giornalisti, deve cambiare approccio. L’esigenza accademica, questo lo comprendo, non può prevedere la trattazione del solo fatto singolo (la vertenza, il licenziamento, una crisi aziendale). Ma è da contestare questo modello di preparazione al giornalismo cui importa poco e niente di calarsi nella sua realtà di riferimento. Anche a causa di questo modello abbiamo gli allegri inconsapevoli “masterizzati”, con tesserino che escono da scuola e pensano: «tutto mi è dovuto». Arrivano nel mercato saturo, drogato, incredibilmente falsato, del giornalismo italiano e si dicono: «Dove ho sbagliato?».

Non hanno sbagliato niente loro. Semmai hanno sbagliato quelli che gli hanno dato la patente.

 

La scuola dei giornalisti magna e bevi

“Comunicazione e giornalismo multimediale enogastronomico”. E fin qui è il solito master di primo livello, il solito master da 6mila euro per specializzare il giornalista, stavolta nella classica formula “mangia e bevi”.

Ma il master che oggi il Suor Orsola Benincasa ha presentato ha qualcosa di singolare, di strano. E inaccettabile.  Van bene 1.500 ore di lezione, ok per il costo, 6mila euro. Ma il fatto che questo master annuale valga come un anno di praticantato per diventare giornalista professionista secondo me è una cosa allucinante. Ridurre la conoscenza di una professione a materie del tipo “Analisi del settore agro-alimentare in Italia”; “Marketing del settore agro-alimentare e del turismo”; “Organizzazione e marketing degli eventi enogastronomici”; “Marketing food & Wine on line” o “Food branding” è davvero inaccettabile.