Troisi e l’occhio di bue

Quando morì Massimo Troisi io ero una rotellina del mondo dello spettacolo; reggevo l’occhio di bue in un cabaret. L’ho fatto per qualche anno. Quella sera lo spettacolo si fermò un momento: per guadagnare un applauso il comico più vecchio disse al pubblico che era morto Troisi, loro applaudirono, increduli. Pensai che si applaude sempre, ad ogni cosa.
Poi sono passato ad altro tipo di spettacoli, ad altri comici. Al giornalismo, insomma.

Massimo Troisi è morto quindici anni fa, dunque avevo più della metà di trent’anni e mi ricordo che lui aveva già sceneggiato la sua morte, in “Morto Troisi, viva Troisi” uno sketch che fino a qualche anno fa la Rai rimandava spesso in onda.  Ci parlava anche Renzo Arbore che è l’artista più gettonato ai funerali dei mostri sacri dell’arte napoletana. Quando muore un artista napoletano e vai ai funerali, c’è sempre Renzo Arbore, il suo ricordo è un punto fisso per i giornalisti. Troisi nello sketch previde pure questo.
Quando morì un mio amico che si vantava di avere «la stessa malattia di Massimo Troisi» capiì che entrambi sapevano da anni di non avere in fondo molto tempo davanti. E capiì pure perché «chi vuole un figlio non insiste».

A Troisi è intitolato il parco del Bronx di San Giovanni a Teduccio. Il Comune di Napoli lo fece perché era la cosa più vicina a San Giorgio a Cremano, città natale dell’artista. Meglio chiamarlo “Parco Troisi”, avran pensato, visto che fino ad allora si chiamava “Parco Mazzetta”, essendo nato coi soldi delle bustarelle di Tangentopoli recuperate prima che sparissero in qualche tasca. È veramente un parco di merda, la versione horror di Kyde Park, la parodia nana di Central Park. Lo gestiscono gli ex disoccupati organizzati che lavorano col Comune. Penso che Troisi non avrebbe voluto un parco diverso da quello, una costante testimonianza dell’ipocrisia napoletana, il pensare contro il voler dire, il far finta di voler fare contro il voler fregarsene.

E in una sera d’estate e d’elezioni, dove nessuno ha speso mezza parola  e in ansa c’è sempre la solita cerimonia religiosa, il solito personaggio che promette la mostra itinerante delle mutande utilizzate nel secondo film  o dei calzini indossati dal trio “La Smorfia” mi rivedo il film, riascolto la malinconica canzone.
Come con Paz: caro  Massimo in questi quindici anni non ti sei perso niente.