«E il peggio è che, tutto quello che scopro, devo gridarlo intorno. Come un amante, come un ubriaco, come un traditore».
Bertold Brecht
Torni a casa, scrivi. Sei in strada, cacci il taccuino dalla tasca che lo ingoia e si è allargata, diventando della stessa forma del blocchetto. Scrivi. Ho una busta (di carta) che dentro ospita taccuini bellissimi, nuovi, fantastici. Tutti attendono di essere scritti: sono il mio futuro.
Il presente è invece delle battute in 140 caratteri, degli status sui social network. A cosa stai pensando? A cosa penso, vuoi davvero saperlo? Che non sono le 4 pareti di casa a rendermi stretta la vita, ma uscire e trovare moltitudine di pareti invisibili, manco fosse il labirinto di specchi nel parco giochi.
Scoprire i limiti non è una conquista. È il prendere atto di dover fare una scelta: o rompere le barriere o star lì, guardare dalla finestra (ipotesi non necessariamente sbagliata, solo diversa).
A noi cosa viene chiesto? Di scrivere. Di scrivere in maniera convinvcente, schietta, secca. Scrivere e sottrarre la retorica al periodo. Lavorare il legno ma non intarsiarlo. Modellarlo come durissimo ebano ma non per farne randello bensì fresca secchiata d’acqua. Ti arrabbi quando la ricevi in faccia ma subito dopo ti rendi conto che è tutta vita, non ne potevi fare a meno.
Così nasce il fatto che torniamo a casa e scriviamo, cacciamo il taccuino dalla tasca e scriviamo, testimoniamo. Senza patrocini morali del Comune, senza contributi all’editore, senza la spalla dell’esperto letterario. Scriviamo perchè è la prima cosa che dovremmo fare ma la penultima che ci viene in mente. E così scriviamo forte, come i dannati, buttiamo giù quello che ci viene e lo lanciamo ma non nell’oceano – che stupiditaggine, lanciare senza aver chiaro l’obiettivo – ma a chi ha orecchie tese.
Possibile. È possibile dunque che domani, in piazza del Popolo, leggeranno Raffaella che si è seduta e ha scritto.
Qui il testo integrale: Mi sveglio, mi pettino e allo specchio mi trucco. Vado veloce e mi porto avanti coi compiti della giornata, il tredici febbraio è domenica ma io lavoro lo stesso: le mie precarie occupazioni non conoscono giorni di festa; faccende e responsabilità ataviche che mi obbligano a mettere in tavola laboriosi piatti ne sanno ancora meno. La mia flessibilità, l’autonomia, esiste solo nei salotti televisivi: il tredici febbraio io che raccolgo i capelli e trucco gli occhi sono una donna che assolve alla sua prima mansione, io non stacco mai, sempre pronta, sempre duttile e disponibile, sempre carina, sempre attenta.
In questo giorno che cade e divide a metà il mese più corto, nel mio Paese 150 anni fa unito e tanto frammezzato e diviso sformato io sono una madre e una lavoratrice in cassaintegrazione, una scrittrice e un’impiegata. Sono, nell’ordine, una commessa e una ricercatrice, una femminista e del femminismo non so niente. Sono una minorenne marocchina e una precaria recidiva, io sono un’universitaria e una casalinga, e mi prendo tempo, lascio la spesa a metà, afferro la borsa.
Il tredici febbraio io porto per strada la mia rabbia come un cane senza guinzaglio, non giudico, non appartengo ad un partito o all’altro e non tollero: non sono agnello tra i lupi, né lupo travestito da agnello, non mi sottometto né agito la mia sottomissione come una spada. Il tredici febbraio io rinuncio alle file di denti da far brillare, al corpo teso da offrire come tangente, al piatto di pasta che mi faccia perdonare, sciopero anche la mia tranquilla forza lavoro pagata poco e male, smetto persino di sentirmi sprecata e costretta nell’angolo di una dicotomia che mi vuole pentita prostituta siliconata o grezza vergine slavata ma sempre femmina, sempre io, in fondo.
Il tredici febbraio io mi dimetto, mi licenzio. E al ruolo di efficiente, silenziosa, furba bellezza da pubblicità, io abdico. Il tredici febbraio io scendo in piazza.
È possibile che domenica, a Londra, davanti Downing Street leggeranno una mia riflessione di qualche giorno fa (e questo però è possibile soprattutto perché Alessandra ha apprezzato, poi si è seduta e con santa pazienza ha tradotto).