Diffamazione, il fallimento sindacale dello sciopero dei giornalisti

«Non bisogna mai negoziare per paura, non bisogna mai aver paura di negoziare» sosteneva John Kennedy e come dargli torto? C’è stato un anno in cui, da sindacalista, penso di aver condiviso con altri tre colleghi il record nazionale di proclamazione degli scioperi d’un giornale. Manco la Fiom. Però alcune regole le conoscevo e la conosco: non si lascia il tavolo se c’è trattativa, se si apre uno spiraglio non si proclama lo sciopero, prima di proclamare lo sciopero devi essere sicuro che la base ti segua o è un disastro.

Regole che con la vicenda dello sciopero dei giornalisti sulla diffamazione, astensione proclamata lunedì 26 e ieri sera rinviata frettolosamente, sono state ignorate. Il “differimento” dello sciopero è stato un clamoroso boomerang,  una gigantesca perdita di credibilità da parte del sindacato dei giornalisti italiani.

I motivi sono molto semplici: anzitutto questo sciopero è nato male.

Proclamato dalla giunta della Federazione nazionale della Stampa sentiti chi? I grandi gruppi editoriali, Ansa, Rcs, Espresso-Repubblica, Rai, Mediaset, Sky, La7  e via seguendo. Ignorando la platea crescente – e numericamente rilevante – che si muove sul web e non ha giornali cartacei ma rappresenta ormai il cuore pulsante di un sistema che non è più marginale come un tempo ma macina milioni di contatti e “muove” qualcosa nel panorama editoriale. Una decisione calata dall’alto, con un desueto comunicato  (“Sanzionare gli editori” è una frase da Camera del Lavoro degli anni ’70) e un errore madornale, ovvero il mancato confronto con una platea, quella dei giornalisti precari, che rappresenta la maggioranza del panorama lavorativo italiano in questo settore. La metà, se non di più.

Lo sciopero – lo facevano notare molte persone che delle dinamiche del giornalismo italiano fanno pane quotidiano, Arianna Ciccone, Mario Tedeschini-Lalli – così com’è, non è più lo strumento di lotta principale dei giornalisti. Fermare le rotative non è più possibile, fermare il web non è mai stato possibile. Per questioni di carattere generale come quella della diffamazione occorre oggettivamente trovare strumenti nuovi. Ma bisognava pensarci prima di proclamare lo sciopero al grido di «Sanzioniamoli!».

Poi che cosa è successo? Una volta arrivata la notizia dell’astensione dal lavoro, molti si sono rizelati: «Ma come,  il giorno delle primarie del centrosinistra?». E si è spaccato il fronte: “Il Giornale”, quello di Sallusti, il direttore la cui condanna al carcere ha aperto la discussione sulla legge diffamazione, ha annunciato che il suo quotidiano non avrebbe aderito allo sciopero. Per la serie, “mi si nota di più se non vado o se vado e resto in disparte”? Dunque “Giornale” – e probabilmente “Libero” –  in edicola.

Enrico Mentana direttore del Tg di La7, si è arrabbiato:

Stefano Menichini, direttore di “Europa”, ingoiava il boccone amaro scrivendo su Facebook: «Non contesto lo sciopero Fnsi. Ma il giorno dopo le primarie Europa, il giornale meno diffamatore d’Italia, sarà il giornale più penalizzato». Luca Sofri, direttore de “Il Post”, pure marcava delle distanze facendo capire che il suo giornale non avrebbe osservato 24 ore di silenzio:

Anche il gruppo Riffeser (“Quotidiano Nazionale”, “Il Resto del Carlino”, “La Nazione”, “Il Giorno”) aveva annunciato una iniziativa alternativa allo sciopero: mettere le notizie di politica in ultima pagina.

La Fieg, ovvero gli editori,  si è dichiarata favorevole alla mobilitazione ma ovviamente contraria allo sciopero. Scriveva ieri  il presidente Giulio Anselmi in una nota:

Le ragioni della protesta dei giornalisti contro una pessima legge sulla diffamazione sono comprese e condivise. Ma la Fieg ritiene improprie le modalita’ della protesta con uno sciopero che rende ancora piu’ difficile la situazione dell’informazione.

Ora vengono le dolenti e peggiori note di questa sgangherata orchestrina sindacale.

Ieri sera verso le 21 lo sciopero è saltato. La notizia l’ha data Mario Lavia, vicedirettore di Europa, sempre su twitter.

Ciò, mentre le agenzie battevano una dichiarazione del presidente del Senato Renato Schifani:

“L’eventuale rinvio della protesta potrà consentire alle organizzazioni sindacali una valutazione complessiva del testo esitato dal Senato, destinato, tra l’altro, a successiva valutazione da parte della Camera dei deputati. Tutto cio’ – conclude il presidente del Senato – costituirebbe garanzia di quel clima di coesione sociale di cui l’Italia ha bisogno.

Dopo qualche decina di lunghissimi minuti la Fnsi se n’è uscita con un comunicato , parlando di «lotta convergente tra giornalisti ed editori».

“Rispettosi della vita istituzionale del Paese, per gli stessi principi di adesione al dettato della Costituzione messi a rischio da proposte di legge devastanti, che ci costringono alla più forte protesta perché aggrediscono il diritto dei cittadini alla verità dei fatti di interesse pubblico e all’autonomia dell’informazione, accogliamo l’appello alla riflessione che arriva dalla seconda carica dello Stato. E’ un appello che, parimenti, va rivolto ai proponenti delle norme legislative in discussione in Senato. La riflessione sarà speculare a quella che avanzerà nel corso del processo legislativo. Nello stesso tempo la Fnsi rileva che, per la prima volta, la sua protesta, dopo la proclamazione di uno sciopero dei giornalisti, registra la convergenza piena della Federazione degli Editori sulle ragioni di una protesta determinata, sostenuta dai comitati di redazione, dalle associazioni regionali di stampa e da migliaia di colleghi, rendendo possibile una grande iniziativa comune per consentire a milioni di italiani di capire cosa sta accadendo, quale sia il senso di una battaglia civile per il diritto alle verità delle notizie, all’autonomia e al pluralismo dell’informazione.

Insomma, una cura peggiore del male: se proclamare lo sciopero così significava far ridere i polli, quegli stessi pennuti ora si stanno scompisciando, leggendo la precipitosa retromarcia. Una perdita di credibilità, una arroganza – nell’annunciare sciopero senza ascoltare tutti, ma proprio tutti, e un asservimento al potere politico e a quello editoriale col frettoloso dietrofront.

Sì, è proprio il perfetto specchio del giornalismo italiano e di chi lo rappresenta.

 

Campania Digitale sbaracca e licenzia

Chi legge questo blog sa che in più occasioni mi sono occupato di Campania Digitale, la società della Regione Campania incaricata sostanzialmente dall’allora governatore Antonio Bassolino e dai suoi fedelissimi di “veicolare e controllare” il flusso informativo che esce dalla giunta campana.

Controllare significa: produrre materiale audiovideo da impacchettare e regalare (sì, regalare) alle emittenti radiotelevisive campane, cui non par vero di non pagare giornalista e telecineoperatore. Fosse solo quello: ci sono decine di affidamenti, documentati, a Campania Digitale per siti internet, campagne di comunicazione e affini. Tutto in house. Tutto pagato dalla collettività. Ma è per risparmiare denaro, ti dicono. Sarà così?  I risultati si sono visiti? Non penso. E c’è un buon magistrato da qualche parte che controlli se e come sono stati spesi quei quattrini? Penso di sì ma  ci ritorno a breve.

La notizia di oggi è che CD ha fatto crac. Il nuovo governatore Stefano Caldoro qualche settimana fa, annullando una serie di delibere del suo predecessore ne ha stracciata anche una che finanziava le news di questa società. Morale della storia: in 7 vanno a casa, 5 giornalisti, 2 telecineoperatori.

Della necessità di trasparenza e concorsi pubblici per i posti ai giornalisti nell’Ente pubblico parlo magari in un’altra occasione. Però non ho potuto non notare una piccola cosa, il dettaglio che fa scattare la rabbia: Campania Digitale e i suoi lavoratori (tutti, ripeto, pagati da noi) ha lavorato alla regia e alle riprese del Premio Internazionale di Giornalismo Ischia.

È tutto paradossale: una pseudo società di informazione giornalistica pagata dall’ente pubblico assume 5 giornalisti (assunti non so come, a curriculum? concorso? Chiamata diretta?) e poi li licenzia. Per cosa?

Io l’idea ce l’ho: per far posto ad altri giornalisti.

E la cosa bella è che il direttore di Campania Digitale resta al suo posto. Di solito è il primo a saltare, in questo caso no. Si vede che a Palazzo Santa Lucia sulle poltrone c’è una buona colla. L’Ordine dei Giornalisti si è mobilitato, vedremo cosa accadrà

Ps: oggi ne ho scritto per  E Polis. Chiunque abbia info interessanti su questa società o su chi ne fa parte mi contatti, garantisco la tutela della fonte fino alla morte.

La grande fregatura del giornalismo

Ordine Nazionale dei Giornalisti e Federazione Nazionale della Stampa sono recentemente più attivi che mai. Ahimè l’uno contro l’altro. Diverse visioni della professione, diverse “ricette” per tutelare occupati, inoccupati, precari e aspiranti giornalisti.
In mezzo, la campagna elettorale per il rinnovo degli organismi di tutela dei giornalisti. Sono state le prime elezioni giocate sul web al cento per cento. Partendo da questo presupposto, voglio presentarvi una serie di dati interessanti, emersi in questi giorni di iperattivismo. Due visioni speculari, quelle di sindacato e ordine professionale: il primo accusa l’altro di non aver fatto nulla per scongiurare il proliferare di scuole post-universitarie che hanno gonfiato a dismisura la platea degli iscritti; il secondo accusa l’altro di non attaccare abbastanza gli editori.

Tra questi, come sabbia nell’ingranaggio, il Coordinamento giornalisti precari della Campania con la sua inchiesta sui corsi-truffa per diventare giornalista pubblicista: si paga fino a 3mila euro per restare con un pugno di mosche in mano.

Giornalisti, la nuova carta deontologica senza coraggio

L’Ordine nazionale dei Giornalisti ha intenzione di raccogliere e aggiornare tutte le norme riguardanti la deontologia cui i professionisti dell’informazione devono attenersi. Può sembrare una questione di codicilli, non lo è: spesso è l’unico strumento di tutela cui una persona che si ritiene offesa da quanto scritto o mandato in video può fare riferimento, quando non ci sono gli estremi per la querela. E dal punto di vista sindacale le norme deontologiche diventano ahimè sempre più di frequente l’unico, debolissimo, argine per scongiurare le micidiali ingerenze della pubblicità nell’informazione.

E così l’Odg nazionale ha creato un bel “Gruppo di lavoro sulla deontologia” che ha redatto un documento di indirizzo per la futura redazione del Testo Unico sulla deontologia, approvato dalla Commissione Giuridica dell’Ordine. Millemila passaggi burocratici, uno slogan: «riportare la deontologia al centro della professione giornalistica». Leggo le belle iniziative che si spera di mettere in campo: trasparenza nel messaggio informativo; caccia ai servizi televisivi precotti, realizzati direttamente da uffici stampa; chiarezza nelle agenzie di stampa quando il “comunicato” viene passato integralmente dall’ufficio stampa alla Rete, i giornalisti col doppio-triplo ruolo (cronisti, imprenditori, moderatori, consulenti). Insomma tanta bella carne a cuocere.  I documenti completi sono un articolo sul “caso” della deontologia giornalistica e un più vasto documento con una panoramica sulla vicenda.

Riflettendoci, penso però che uno sforzo in più su certe delicatissime situazioni  presenti per lo più nel Sud Italia andava fatto. Negli ultimi anni la categoria è stata bacchettata tantissime volte, ad esempio sulla trattazione delle notizie di camorra sui  media locali.
Qualche anno fa, era la fine del 2008, proprio sull’onda di certe denunce (ad esempio quella pubblica di Roberto Saviano, i famosi titoli dei giornali su don Diana e sui boss del clan dei Casalesi) presentavo proprio a Caserta e a Casal di Principe, in occasione di un incontro pubblico con Ordine dei giornalisti e Federazione Nazionale della Stampa, una «Modesta proposta di carta deontologica su Memoria, coscienza e denuncia nella lotta alla criminalità organizzata».  Ricevetti incoraggiamenti, pacche sulla spalla e applausi; il testo fu anche discusso in sede di Odg Campania e spedito a Roma.

Ora: non mi aspettavo di trovare chissà quale traccia di quelle poche parole nell’accurato e tecnico studio condotto dagli esperti dell’Ordine. Però faccio notare che ora c’era la possibilità di dire parole chiare su certi argomenti. La possibilità di ribadire che il boss sul giornale non va dipinto come un eroe  ma vanno ricordate ogni volta le ragioni che l’hanno portato in carcere. Che agli “alias” i nomignoli dei malavitosi che tanto piacciono a chi fa i titoli, non devono essere enfatizzati. Che bisogna tener d’occhio perfino le pagine di spettacolo dove il neomelodico di turno con la sua canzone sul latitante o sul  capo dei capi, dev’essere trattato com’è giusto trattare temi del genere in un Paese civile.

Ovviamente non so come e fino a che punto temi del genere possano rientrare in una codificazione generale, valida per tutti i media e in ogni luogo d’Italia. Fatto sta che si è persa una grande occasione per discutere della questione (che mi impegno a riproporre in ogni sede per quel che posso): con una buona riflessione sull’argomento ci avremmo guadagnato tutti.

Camorra Carta Deontologica Giornalisti

Per una mappa della crisi del giornalismo e dell’editoria italiana

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«We can work it out»
Beatles, 1965

Bilancino della giornata. Vediamo… Oggi ho prodotto dieci – o dodici – aggiornamenti della Borsa. Altri tre o quattro pastoni. Nessunafirma. Visibilità zero. Nebbia in Valpadana. Vieni all’online, dicevano, qui è il giornale del futuro.
“Perché comprare un giornale che esce una volta al giorno quando lo puoi avere aggiornato ogni ora?” Sì, ogni ora, ogni mezz’ora, ogni minuto no? E perché no? Mortacci vostra… Ma noi siamo la punta di diamante del futuro. “Il futuro è qui”.
Il giornalismo di domani è questo. Giornalismo? Questo non è giornalismo, non per me almeno. Anche oggi non ho chiamato nessuna fonte, non ho sentito nessuno, non ho visto niente.
Non ho messo fuori il piede dalla redazione. Ho passato i soliti 5mila lanci di agenzia quotidiani alla ricerca della NOTIZIA. Ho linkato siti e siti, documenti, file pdf, immagini e suoni. Ho seguito indici, opzioni, future, azioni, obbligazioni. Ho travasato numerini e nomi da uno schermo ad altri schermi. Li ho riversati in migliaia di schermi di altri internauti.
Non ho verificato una sola riga di quello che ho scritto. Domani è un altro giorno.
Domani splenderà il sole e il Giornalismo ti bacerà in fronte.
Buonanotte.

«Io lavoro al desk, di un portale a ore…» –  Il Barbiere della Sera, dicembre 2000

.


UNA PREMESSA PERSONALE
Ho iniziato a fare il giornalista nel 1997. Allora, in molte piccole redazioni locali, non era ancora arrivata internet.
Delle prospettive di questo mestiere ne discutevano ai convegni negli hotel e ai festival in ridenti località balneari, docenti universitari e guru americani, sindacalisti e presidenti dell’Ordine professionale, direttori e importanti cronisti.
Oggi, 2010, non esiste una discussione sul giornalismo che prescinda dal confronto via internet.
Sulle regole e su certi meccanismi teorici di questo mestiere ho imparato di più leggendo sul web che preparandomi all’esame d’idoneità professionale.
Ho iniziato disegnando la pagina sul menabò di carta per passarla all’ufficio grafico. Oggi la mia giornata da deskista comincia scegliendo da un book elettronico i master delle pagine. Drag and drop, et voilà: la “cornice” è montata nello spazio che mi è stato assegnato. Quando ho cominciato mi sottolineavano l’importanza (e l’obbligo, se non si era fuori per servizio) di passare in redazione la mattina per leggere i giornali. Stamattina mi sono svegliato e prima d’uscire ho scaricato i quotidiani, letto la rassegna stampa pdf. Mi sono trovato “in redazione”  digitando username e password, perché sono in telelavoro.

Oggi la mia redazione è ovunque.

Durante un convegno molto lungo posso sedermi (ecco, magari non proprio davanti al buffet) e iniziare a scrivere il pezzo. O impostare il titolo della pagina. Posso scaricare le fotografie via Usb, farle vedere in redazione, mandare ad un collega di Milano l’mp3 col discorso del suo sindaco in trasferta a Napoli.
Lo posso fare. Anzi l’ho già fatto.
Avevo – ed ho ancora – una rubrica telefonica di carta. Rossa, con la copertina rigida, ci sono un migliaio di numeri. Non la consulto più da anni e non perché la necessità di chiamare qualcuno si sia ridotta (o forse sì?) ma perché non ho più bisogno di annotare numeri con la penna. Che senso ha, non poterli mettere su un file e poi importarli nel Blackberry?

Per me, classe 1977, è cambiato molto meno di quanto è cambiato ad esempio per un collega nato nel 1950. Eppure, mentre per lui la “rivoluzione tecnologica”  ha rappresentato sì il rischio di esuberi e prepensionamenti ma a fronte d’una carriera iniziata con tutti i crismi (contratto e solidità previdenziale, possibilità di promozioni), per me è stato l’inizio di una instabilità perpetua. Un pilastro di cemento piazzato tra il sottoscritto e i gradini della scala di mobilità sociale.

UNA MAPPA DELLA CRISI DELL’EDITORIA IN ITALIA
La premessa personale mi era indispensabile per introdurre un lavoro su quest’ultimo anno dell’editoria italiana.
Si tratta  nient’altro che della riproposizione grafica, con Google Maps, dell’elenco delle circa 40 vertenze di lavoro portate avanti nel 2009 dalla Federazione Italiana della Stampa. Ristrutturazioni, cassa integrazione, contratti di solidarietà, esuberi, prepensionamenti. Una mappa ovviamente incompleta ma che conto di aggiornare via via, di aprire a collaborazioni.
A che serve riproporre così i dati?
Le vertenze editoriali dell’anno appena trascorso, sono tantissime per un piccolo Paese come il nostro: la riproposizione mash-up consente di rendere più evidente la gravità di tale situazione. Mi sono ispirato, pur non disponendo della complessa rete di “rumors” aziendali che ne costituisce l’autentica ricchezza, a Paper Cuts il sito americano che analizza giorno per giorno la crisi editoriale americana.

Ma cosa c’entrano l’esperienza  in premessa e la crisi dell’editoria col futuro del giornalismo? Spesso di quest’ultimo si parla prescindendo dalla crisi. Del resto la Rete va avanti, i social media ribaltano e controribaltano vecchie gerarchie. Sempre più  di frequente, forse a ragion veduta, si identificano la crisi del giornalismo con quella dell’editoria, entrambe contrapposte alla continua, positiva, evoluzione della Rete. Un assunto che ho sentito ripetere spesso in questo periodo è: la crisi è un’opportunità. Brutalmente: perché dovremmo preoccuparci del vecchio, se ci salverà il nuovo che avanza?

GLI EFFETTI DI QUESTA SITUAZIONE USURANTE
La scure sui posti di lavoro nel settore, nel biennio 09/10 (esuberi stimati dalla Fnsi: circa 700); la costante tensione tra le parti (editore vs. giornalista), i continui piani di riassetto e le diatribe sindacali si traducono nient’altro che in cure dimagranti repentine, dannose come solo le diete drastiche sanno essere.

La crisi si è palesata come una violenta spallata contro un giornalista già barcollante. Altro che schiena dritta! Il progressivo depauperamento delle redazioni e l’inasprimento dei rapporti aziendali non giova alla quiete e alla serenità che questo mestiere richiede.
A dispetto della mitologia cinematografica che restituisce l’immagine di cronisti travagliati e bohèmienne, la discesa “sul campo”, la cura delle fonti e la verifica delle informazioni sono possibili solo in un contesto di relativa tranquillità. Quindi senza gli affanni della produzione in tempi compressi, i carichi improbi di lavoro, la multipla fatica del cronista-deskista (articoli, più titoli, più impaginazione). In caso contrario è facile sbagliare e cadere per esempio in errore. Errore  che per il giornalista sempre più spesso si tramuta nella temuta, e dispendiosa querela per diffamazione (o causa civile per risarcimento danni).
I detrattori dell’attuale modo di fare giornalismo conoscono bene certi vizi di questo mestiere: la riproposizione eterna di clichè, la poca voglia di scavare, rischiare, di cercare le “storie”. L’accontentarsi del “cotto e mangiato” che arriva dalle agenzie di stampa, il limitarsi al copia-incolla dai comunicati stampa. Sono solo alcuni degli effetti primari del sistema deprimente che abbiamo intorno.

Molti scordano che il giornalista è prima di tutto un lavoratore.

Guardando la mappa delle vertenze curate dal sindacato, si evince come la mannaia si sia abbattuta con forza sulle redazioni regionali. Parliamo di giornali piccoli e medi, all’interno dei quali ad ogni accenno di crisi le tensioni tra gli stessi dipendenti raggiungono livelli altissimi e si riverberano sull’intera catena di comando, dal caporedattore al redattore, dall’«abusivo di redazione» al collaboratore esterno senza contratto. Per quanti di loro, i nervi non avranno retto? E parliamo delle situazioni conosciute agli organismi sindacali e previdenziali. Ci sono tantissimi casi “invisibili”, conosciuti solo dai diretti protagonisti.  Sarebbe interessante capire qual è stata, nel 2009, l’incidenza della spesa Casagit per psicoterapia, nonchè  quantificare con le Assostampa locali le cause di mobbing. Potremmo trovarci davanti a due indicatori importanti degli effetti della crisi.

MA PARLAVAMO DI GIORNALISMO
Se se ne esce, saranno i dati della fine dell’anno a suggerircelo. Le previsioni sono discordanti, tuttavia una cosa la si può affermare con relativa certezza: l’editoria degli “anni zero” ci sta portando su strade nuove. Nuove nelle forme, nei contenuti, nei modelli di gestione e diffusione. E il giornalismo?

«Ho travasato numerini e nomi da uno schermo ad altri schermi. Li ho riversati in migliaia di schermi di altri internauti.  Non ho verificato una sola riga di quello che ho scritto. Domani è un altro giorno».

Così scriveva l’ironico narratore del Barbiere della Sera 10 anni fa. Nel corso di questo periodo si sarà probabilmente reso conto che non sono più le informazioni ad essere “riversate negli schermi” bensì sono gli utenti, i lettori, ad aggrapparsi ogni giorno a varie maniglie del sistema: una volta è il sito del quotidiano, un’altra volta è il social-media, l’altra ancora è il blog  e chissà quante altre maniglie ancora.

Cosa farà ora, a dieci anni di distanza, quel «giornalista del portale ad ore?». Spero per lui che sia stato assunto. E che il suo portale sia sfuggito alla selezione darwiniana. Me lo immagino con un contratto al minimo tabellare, pochi incentivi alla formazione professionale, nessun integrativo in busta paga. E accanito lettore delle discussioni sul giornalismo che corrono in Rete.

Del resto, a dispetto della crisi, non ha mai perso la voglia di fare questo mestiere per davvero. Un giorno.

«We can work it out»
Beatles, 1965

Bilancino della giornata. Vediamo… Oggi ho prodotto dieci – o dodici – aggiornamenti della Borsa. Altri tre o quattro

pastoni. Nessunafirma. Visibilità zero. Nebbia in Valpadana. Vieni all’online, dicevano, qui è il giornale del futuro.
“Perché comprare un giornale che esce una volta al giorno quando lo puoi avere aggiornato ogni ora?” Sì, ogni ora, ogni

mezz’ora, ogni minuto no? E perché no? Mortacci vostra… Ma noi siamo la punta di diamante del futuro. “Il futuro è qui”.

Il giornalismo di domani è questo. Giornalismo? Questo non è giornalismo, non per me almeno. Anche oggi non ho chiamato

nessuna fonte, non ho sentito nessuno, non ho visto niente.
Non ho messo fuori il piede dalla redazione. Ho passato i soliti 5mila lanci di agenzia quotidiani alla ricerca della

NOTIZIA. Ho linkato siti e siti, documenti, file pdf, immagini e suoni. Ho seguito indici, opzioni, future, azioni,

obbligazioni. Ho travasato numerini e nomi da uno schermo ad altri schermi. Li ho riversati in migliaia di schermi di altri

internauti.
Non ho verificato una sola riga di quello che ho scritto. Domani è un altro giorno.

Domani splenderà il sole e il Giornalismo ti bacerà in fronte.
Buonanotte.

«Io lavoro al desk, di un portale a ore…» –  Il Barbiere della Sera, dicembre 2000

UNA PREMESSA PERSONALE

Ho iniziato a fare il giornalista nel 1997. Allora, nelle piccole redazioni locali, non era ancora arrivata internet.
Delle prospettive di questo mestiere ne discutevano ai convegni negli hotel e ai festival in ridenti località balneari

docenti universitari e guru americani, sindacalisti e presidenti dell’Ordine professionale, direttori e importanti cronisti.
Nel 2010 non esiste una discussione sul giornalismo che prescinda dal confronto via internet.
Sulle regole e su certi meccanismi teorici di questo mestiere ho imparato di più leggendo sul web che preparandomi all’esame

d’idoneità professionale.
Ho iniziato disegnando la pagina sul menabò di carta per passarla all’ufficio grafico. Oggi la mia giornata da deskista

comincia scegliendo da un book elettronico i master delle pagine. Drag & drop, et voilà: la “cornice” è montata nello spazio

che mi è stato assegnato. Quando ho cominciato mi sottolineavano l’importanza (e l’obbligo, se non si era fuori per servizio)

di andare in redazione la mattina alle 10.30 per leggere i giornali. Stamattina mi sono svegliato prima d’uscire, ho

scaricato i quotidiani e letto la rassegna stampa pdf. Mi sono trovato “in redazione”  digitando username e password, perché

sono in telelavoro.

Oggi, la mia redazione è ovunque.

Durante un convegno molto lungo posso sedermi (ecco, magari non proprio davanti al buffet) e inizare a scrivere il pezzo. O

impostare il titolo della pagina. Posso scaricare le fotografie via Usb, farle vedere in redazione, mandare ad un collega di

Milano l’mp3 col discorso del suo sindaco in trasferta a Napoli.
Lo posso fare anzi, l’ho già fatto.
Avevo – ed ho ancora – una rubrica telefonica di carta. Rossa, con la copertina rigida, ci sono un migliaio di numeri. Non la

consulto più da anni e non perché la necessità di chiamare qualcuno si sia ridotta (o forse sì?) ma perché non ho più bisogno

di annotare numeri con la penna. Che senso ha, non poterli mettere su un file e poi importarli nel BlackBerry?

Per me, classe 1977, è cambiato molto meno di quanto è cambiato ad esempio per un collega nato nel 1950. Eppure, mentre per

lui la “rivoluzione tecnologica”  ha rappresentato sì il rischio di esuberi e prepensionamenti ma a fronte d’una carriera

iniziata con tutti i crismi (contratto e solidità previdenziale, possibilità di promozioni), per me è stato l’inizio di una

instabilità perpetua. Un pilastro di cemento piazzato tra me e i gradini della scala di mobilità sociale.

UNA MAPPA DELLA CRISI DELL’EDITORIA IN ITALIA

La premessa personale mi era indispensabile per introdurre un lavoro su quest’ultimo anno dell’editoria italiana.
Si tratta  nient’altro che della riproposizione grafica, con Google Maps, dell’elenco delle circa 40 vertenze di lavoro

portate avanti nel 2009 dalla Federazione Italiana della Stampa. Ristrutturazioni, Cassa integrazione, contratti di

solidarietà, esuberi, prepensionamenti. Una mappa ovviamente incompleta ma che conto di aprire a collaborazioni. Magari di

affidare alla stessa Fnsi.
A che serve, riproporre così i dati?
Le vertenze editoriali dell’anno appena trascorso, sono tantissime per un piccolo Paese come il nostro: la riproposizione

mash-up consente di rendere più evidente la gravità di tale situazione. Mi sono ispirato, pur non disponendo della complessa

rete di “rumors” aziendali che ne costituisce l’autentica ricchezza, a “Paper Cuts”, il sito americano che analizza giorno

per giorno la crisi editoriale americana.

Ma cosa c’entrano l’esperienza personale in premessa e la crisi dell’editoria col futuro del giornalismo? Spesso di

quest’ultimo si parla prescindendo dalla crisi. Del resto la Rete va avanti, i social network ribaltano e controribaltano

vecchie gerarchie. Sempre più spesso, forse a ragion veduta, si identificano la crisi del giornalismo con quella

dell’editoria, entrambe contrapposte alla continua, positiva, evoluzione della Rete. Un assunto che ho sentito ripetere

spesso in questo periodo: la crisi è una opportunità. Brutalmente: perché dovremmo preoccuparci del vecchio, se l’innovazione

arriva a passo di giava?

GLI EFFETTI DI QUESTA SITUAZIONE USURANTE

La scure sui posti di lavoro nel settore, nel biennio 09/10 (stimati dalla Fnsi in circa 700); la costante tensione tra le

parti (editore vs. giornalista), i continui piani di riassetto e le diatribe sindacali si traducono nient’altro che in cure

dimagranti repentine, dannose come solo le diete drastiche sanno essere.

La crisi si è palesata come una violenta spallata contro un giornalista già barcollante. Altro che schiena dritta! Il

progressivo depauperamento delle redazioni e l’inasprimento dei rapporti aziendali non giova alla quiete e alla serenità che

questo mestiere richiede. A dispetto della mitologia cinematografica che restituisce l’immagine di cronisti travagliati e

bohèmienne, la discesa “sul campo”, la cura delle fonti e la verifica delle informazioni sono possibili solo in un contesto

di relativa tranquillità. Senza gli affanni della produzione in tempi compressi, i carichi improbi di lavoro, la multipla

fatica del cronista-deskista (quindi articoli più titoli e impaginazione). In caso contrario è facile sbagliare e cadere per

esempio nella  “buca”  che per il giornalista spesso è la dispendiosa, pericolosa, querela per diffamazione (o causa civile

per risarcimento danni). Non solo quello: la riproposizione di clichè, la poca voglia di innovare di cercare le “storie”.

Accontentarsi del cotto e mangiato che arriva dalle agenzie e del copia-incolla dai comunicati stampa è uno degli effetti

primari del sistema deprimente che abbiamo intorno.

Un giornalista è prima di tutto un lavoratore.

Guardando la mappa delle vertenze curate dal sindacato, si evince come la mannaia si sia abbattuta con forza sulle redazioni

regionali. Parliamo di giornali piccoli e medi, all’interno dei quali ad ogni accenno di crisi le tensioni raggiungono

livelli altissimi e si riverberano sull’intera catena di comando, dal caporedattore al redattore, dall’«abusivo di redazione»

al collaboratore esterno senza contratto. Per quanti di loro, i nervi non avranno retto? E parliamo delle situazioni

conosciute agli organismi sindacali e previdenziali: ci sono tantissimi casi “invisibili”, conosciuti solo dai diretti

protagonisti.  Sarebbe interessante capire qual è stata nel 2009 l’incidenza della spesa Casagit per psicologi e quantificare

con le Assostampa locali le cause di mobbing. Potremmo trovarci davanti a due indicatori importanti degli effetti della

crisi.

MA PARLAVAMO DI GIORNALISMO

Se se ne esce, saranno i dati della fine dell’anno a dirlo con certezza. Le previsioni sono discordanti, tuttavia una cosa la

si può affermare con relativa certezza: l’editoria degli “anni zero” ha cambiato strada. Nelle forme, nei contenuti, nei

modelli di gestione e diffusione. E il giornalismo?

«Ho travasato numerini e nomi da uno schermo ad altri schermi. Li ho riversati in migliaia di schermi di altri internauti.

Non ho verificato una sola riga di quello che ho scritto. Domani è un altro giorno».

Così scriveva l’ironico narratore del Barbiere della Sera dieci anni fa. Nel corso d’un decennio si sarà probabilmente reso

conto che non sono più le informazioni ad essere “riversate negli schermi” bensì sono gli utenti, i lettori, ad aggrapparsi

ogni giorno a varie maniglie del sistema: una volta è il sito del quotidiano, un’altra volta è il social-media, l’altra

ancora è il blog  e chissà quante altre maniglie ancora.

Cosa farà ora, a dieci anni di distanza, quel «giornalista del portale ad ore?». Spero per lui che sia stato assunto. E che

il suo portale sia sfuggito alla selezione darwiniana. Me lo immagino con un contratto al minimo tabellare, pochi incentivi

alla formazione professionale, nessun integrativo in busta paga. E accanito lettore delle discussioni sul giornalismo che

corrono in Rete. Del resto, a dispetto della crisi, non ha mai perso la voglia di fare questo mestiere per davvero. Un

giorno.