Facebook. Della scrittura, dei rapporti umani e di altri demoni

Facebook sul tempo e nel tempo
Facebook si allarga. Dal momento dell’iscrizione al raggiungimento della padronanza minima di tutti gli strumenti (stato, link, condivisioni, applicazioni varie) il tempo dedicatogli si allunga. La mattina il login di Facebook sostituisce quello della posta elettronica. Ci si affaccia alla finestra di Fb ottenendo un tot di informazioni sparse e senza apparente connessione logica (Es: piove a Caserta, è morto un attore americano, stasera concerto di Vasco Rossi a Salerno, un amico ti chiede se prendete il caffè insieme più tardi).
Facebook è la celebrazione del presente, il qui ed ora. La piattaforma non rende facili, anzi rende pressoché impossibili, ricerche “storiche” sullo stato di un utente, sulle sue note di testo. Soltanto le fotografie si addensano nelle cartelle ad hoc  e rendono il senso del tempo che passa (Es: estate 2008, Londra e Milano 2010, Grecia agosto 2010, Laurea di Giovanni, ecc.)

Facebook sulla scrittura e sul dibattito
l’utilizzo massiccio di questo social network mi ha reso difficile l’approccio col periodo lungo. Il danno è la difficoltà nel produrre testi non necessariamente connotati su fatti di cronaca e nel presente.
La composizione di frasi brevi, la pubblicazione di link con immagini o video sono l’antitesi del testo lungo. Nella bacheca il gradimento di uno “stato” da parte degli altri utenti è direttamente proporzionale al tipo di testo: una battuta folgorante, uno slogan, vale molto più di una riflessione. Non è una novità, ma siccome Facebook è utilizzato per tutto, dal lavoro agli stati d’animo sentimentali, il suo modello finisce per ricadere nella vita off-line. Insomma: scrittura spezzatino, minor attitudine all’ascolto, più facilità di distrazione.
La possibilità di inserire testi lunghi è rappresentata dall’utilizzo delle note, nelle quali si possono taggare gli amici ritenuti più “adatti” alla condivisione di quel pensiero.
Tuttavia la discussione che deriva nei commenti è sempre difficile da impostare. La scarna casellina dei commenti, l’impossibilità di produrre testo linkabile, inserire foto o video nei commenti svilisce molto la possibilità dell’apertura di un dibattito come ad esempio accadeva sui forum o sui newsgroup.

Facebook sui rapporti personali
Il rapporto umano era la normalità, la telefonata un piccolo evento (pronto, casa Esposito? Sono Ciro, c’è Giovanni per piacere?) la lettera cartacea una possibilità non troppo remota. Ora il “mi piace” o il commento di Facebook è la normalità, la mail una richiesta di attenzione maggiore, la telefonata se non annunciata quasi sconfina nella scocciatura, la richiesta di incontro “reale” una quasi proposta intima. Come la dicitura fiscale “imposta di legge assolta”, un contatto su Fb assolve amici o presunti tali, parenti e quant’altro da ascolto e minimo approccio. Si  conoscono i fatti degli altri anche senza doverlo dire. Ma c’è un ingiustificabile pudore. Dagli altri ci si aspetta al massimo un commento sul social network, una mail. O una telefonata, ma se siamo proprio intimi.


facciamo che questo post può essere allungato appena vengono in mente altre cose? sì! (che bello rispondersi da solo)

Frase carina, sembra adatta a Facebook: «This is where I have wasted the best years of my life». Greta Garbo

Il curriculum? Cerca su Google

Alla fine le search stories di Google possono raccontare, o almeno suggerire, la vita professionale di qualcuno. Quantomeno le fasi salienti.  Insomma, una sorta di curriculum. Il mio, per esempio.

Disperatolaureatostomp

Sono il primo laureato del vicolo.
Quando siamo tornati dall’università e siamo scesi dalla macchina mi hanno visto con la giacca e un faldone in mano.
Mi hanno guardato con rispetto: probabilmente hanno pensato che stessi partecipando al processo PELLEGRINO+ALTRI nell’aula bunker di Poggioreale. Del resto sono uno dei pochi incensurati trentenni del mio quartiere e non è una condizione invidiabile.

Le consuete voci dal vicolo:

«Annare’ ch’avite fatt? Quann c’ann rato?»
«Niente, ha detto il giudicio due anni e sei mesi e se si comporta bene esce presto [l’inizio della risposta è in semi-italiano poiché ricalcante l’espressione avvocatesca] ma però niente condizionale pecché già l’hann arrestat nu cuofen ‘e vote a stu scem ‘e maritemo».

Ho una cartellina bianca, dentro ci sono:

  • 1. Pergamena Ordine dei Giornalisti (Complimenti, sei Professionista! E mo’ che cazzo vuoi?);
  • 2. Pergamena Premio Giancarlo Siani (a questa ci tengo ja, pure se la maledizione di Montezuma si è scagliata su di me subito dopo, saranno stati l’uocchie di qualcuno);
  • 3. Pergamena di un altro notissimo premio giornalistico (salve! L’abbiamo selezionata noi senza dire niente, l’abbiamo valutata noi senza dire niente però lei  non ha vinto un cazzo. E allora che me la mandi a fare, mmocc a soreta?)
  • 4. Pergamena affettuosa post-laurea dei parenti (ja ci tengo, non scherzate).

A queste aggiungeremo anche la laurea con la scritta «Grazie per aver acquistato un Big Mac Menu. Succede solo da McDonalds»).

Però non ci vorrei scherzare molto, anche perché il fatto è drammatico.

Ora io di comunicazione, con chi discuto nel vicolo? Con il giovane genio ribelle bambino “Cane Lupo”, esperto in onde del suono? Con  il professor “Merdillo” noto giurista esperto in violazione dei diritti umani. Con l’Arcadia formata dai poeti “Pescevolante”, “Topolino” e “o Puorcio”?
E  che dire, della ricercatrice “Susetta”, nota esperta di bestemmie e anatemi in tutte le lingue del mondo («t’adda venì o giall mmocc e ja murì!!»).
Vogliamo parlare dell’onorevole Fruttaiuolo di Afravòla che la mattina alle prime luci dell’alba ci delizia con la sua semiotica di «‘e mellun comm so bell ‘e mellun, accattateve ‘e ppurtualle, ‘e purtualle so belle».

Ma vi ho mai raccontato che la prima gita scolastica l’ho fatta al Museo Nazionale? Forse sì. Eravamo alle scuole medie, c’era un ragazzo che era come noi alla scuola media ma aveva tipo 37 anni. Sarracino si chiamava.

Sarracino nel Museo Nazionale andava vicino alle ragazze inglese e diceva YOU PEISC? Volendo così intendere: «Ehi, signorina, vorrebbe intraprendere una relazione sentimentale tesa al successivo rapporto fisico con celeste corrispondenza d’amorosi sensi?». E si spuntava la vrachetta per rendere il tutto più chiaro. Di fronte, ammiriamo il mosaico della Battaglia di Isso.

L’utima gita invece l’ho raccontata: scuole superiori, mi hanno portato ad Acerra nello stabilimento Montefibre e ho pure mangiato con gli operai che jastemmavano la madonna vergine perché avrebbero licenziato tutti. Tornai a casa con la crisi di nervi e fu lì che scelsi di fare il sindacalista dei giornalisti (no, quest’ultima parte non è vera, però c’azzecca benissimo).

Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati

«Non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoj, Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean. Sono tutti morti, i grandi libri sono stati scritti, i grandi detti sono stati pronunciati: Voglio solo mostrarvi  un’immagine di quello che succede qui qualche volta, anche se io stesso non capisco bene che cosa stia succedendo».
Bob Dylan

Alla fine, non ho fatto solo due delle cose che volevo: indossare il fiocchettino anarchico, quello di cui si parla in “Amarcord” di Fellini, marciare cantando “Viva Topolin” come il soldato Joker in “Full Metal Jacket” pensando che sì, «sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo, e prossimo al congedo… certo vivo in un mondo di merda, questo sì, ma sono vivo e non ho più paura».
Però la discussione di una tesi di laurea, come tutte le cerimonie pubbliche, è una cosa che non ti appartiene. È una sintesi di momenti vissuti da te ma attesi e immaginati dagli altri in un certo modo. Com’è giusto che sia.

Dopo il bailamme, qualche cosa da dire mi viene. Mi sono laureato a trentatrè anni, in una caldissima giornata, in un’aula magna raffreddata dall’aria condizionata, Scienze della Comunicazione, tesi sugli “Anni zero del giornalismo” e su  come cambia il lavoro del cronista coi nuovi mezzi di comunicazione.  Mi sono laureato all’Università di Cassino, dove sono andato armato delle peggiori intenzioni: c’era quel progetto “Laureare l’esperienza” per i giornalisti che tante lauree (e inchieste di Report) ha generato  Ma due anni fa, trovandomi davanti ad un bivio  – accettare “zitto e muto” i generosi crediti universitari o optare per una nuova normativa “regolatrice” di questo programma universitario che forse aveva sovrastimato “l’esperienza” dei cronisti – ho deciso, così come molti amici, una strada più faticosa, più adatta a me.  Quindi mi sono laureato come un qualunque giovanotto fresco di diploma.

E non è stato manco tanto facile: sono stato bocciato ad un paio di esami scritti, ho dovuto studiare quando ero alle prese con la campagna elettorale per le elezioni regionali, quando  E Polis è andato a puttane, ho dovuto trovare la serenità nei libri sulla storia del giornalismo o sui meccanismi della comunicazione quando intorno a me tutto era il caos. Al datore di lavoro non gli importa poi tanto del tuo professore di Storia delle Idee: se non porti la notizia e riempi la pagina non c’è Machiavelli che tenga.

Per me questa laurea è stata una specie di rivincita, un mucchio di anni fa ero uno di quei signorini taciturni con in mano troppi libri strani che frequentavano Lettere a Porta di Massa, Napoli, Federico II.
Dall’Istituto Tecnico industriale statale “Enrico Fermi”, alla cattedra di Letteratura Italiana a discutere i Promessi Sposi che manco avevo studiato alle scuole superiori. Lì leggevamo Primo Levi ed Elio Vittorini e questo mi ha cambiato la vita, ringrazio ancora Manina Consiglio per questo.  Trenta e lode, il favoloso professor Raffaele Giglio: «Bravo! Lei da che liceo viene?». Poi il lavoro, troppi casini per continuare con tranquillità e tasse eccessivamente onerose per restare a parcheggio aspettando tempi migliori.

Chi di voi ha presente la gavetta in un piccolo giornale cittadino di cronaca? Non c’era tempo manco per respirare, se volevi guadagnarti l’apertura in una pagina di giornale e la speranza di un contratto.

Ricordo Emilio che scriveva la tesi tra i mattinali e la radio della polizia. E Gabriele che faceva la tratta Napoli-Scafati sul bus della Vesuviana coi libri di latino in mano. Sembravano passati mille anni, ora che ne scrivo sembra ieri.

Per anni ho avuto in odio le università, probabilmente perché non ero riuscito a dare ai miei “la soddisfazione” di una laurea. Ne sono quasi certo: nell’ultima settimana il mio sogno ricorrente era quello di veder crollare tutto un attimo prima della mia discussione.

Quando andammo a Cassino per la prima volta eravamo in quattro. Quattro ceffi in un’auto scura, ci fermarono 3 posti di blocco nel raggio di due ore.  Ci iscrivemmo, tornammo di corsa al giornale, mangiando un enorme panino ciocaro per accorciare i tempi del pranzo e metterci al lavoro.  Ieri accompagnando la mia famiglia, mi è tornato in mente quel momento.

C’era Alberto che sarebbe morto di lì a poco, quella era l’ultima volta che avremmo parlato a lungo di noi, delle nostre vite. E ieri a lui ho pensato subito, quand’è finito tutto, sono uscito per prendere aria ho visto un cielo azzurro, assolato, sereno.