Disperatolaureatostomp

Sono il primo laureato del vicolo.
Quando siamo tornati dall’università e siamo scesi dalla macchina mi hanno visto con la giacca e un faldone in mano.
Mi hanno guardato con rispetto: probabilmente hanno pensato che stessi partecipando al processo PELLEGRINO+ALTRI nell’aula bunker di Poggioreale. Del resto sono uno dei pochi incensurati trentenni del mio quartiere e non è una condizione invidiabile.

Le consuete voci dal vicolo:

«Annare’ ch’avite fatt? Quann c’ann rato?»
«Niente, ha detto il giudicio due anni e sei mesi e se si comporta bene esce presto [l’inizio della risposta è in semi-italiano poiché ricalcante l’espressione avvocatesca] ma però niente condizionale pecché già l’hann arrestat nu cuofen ‘e vote a stu scem ‘e maritemo».

Ho una cartellina bianca, dentro ci sono:

  • 1. Pergamena Ordine dei Giornalisti (Complimenti, sei Professionista! E mo’ che cazzo vuoi?);
  • 2. Pergamena Premio Giancarlo Siani (a questa ci tengo ja, pure se la maledizione di Montezuma si è scagliata su di me subito dopo, saranno stati l’uocchie di qualcuno);
  • 3. Pergamena di un altro notissimo premio giornalistico (salve! L’abbiamo selezionata noi senza dire niente, l’abbiamo valutata noi senza dire niente però lei  non ha vinto un cazzo. E allora che me la mandi a fare, mmocc a soreta?)
  • 4. Pergamena affettuosa post-laurea dei parenti (ja ci tengo, non scherzate).

A queste aggiungeremo anche la laurea con la scritta «Grazie per aver acquistato un Big Mac Menu. Succede solo da McDonalds»).

Però non ci vorrei scherzare molto, anche perché il fatto è drammatico.

Ora io di comunicazione, con chi discuto nel vicolo? Con il giovane genio ribelle bambino “Cane Lupo”, esperto in onde del suono? Con  il professor “Merdillo” noto giurista esperto in violazione dei diritti umani. Con l’Arcadia formata dai poeti “Pescevolante”, “Topolino” e “o Puorcio”?
E  che dire, della ricercatrice “Susetta”, nota esperta di bestemmie e anatemi in tutte le lingue del mondo («t’adda venì o giall mmocc e ja murì!!»).
Vogliamo parlare dell’onorevole Fruttaiuolo di Afravòla che la mattina alle prime luci dell’alba ci delizia con la sua semiotica di «‘e mellun comm so bell ‘e mellun, accattateve ‘e ppurtualle, ‘e purtualle so belle».

Ma vi ho mai raccontato che la prima gita scolastica l’ho fatta al Museo Nazionale? Forse sì. Eravamo alle scuole medie, c’era un ragazzo che era come noi alla scuola media ma aveva tipo 37 anni. Sarracino si chiamava.

Sarracino nel Museo Nazionale andava vicino alle ragazze inglese e diceva YOU PEISC? Volendo così intendere: «Ehi, signorina, vorrebbe intraprendere una relazione sentimentale tesa al successivo rapporto fisico con celeste corrispondenza d’amorosi sensi?». E si spuntava la vrachetta per rendere il tutto più chiaro. Di fronte, ammiriamo il mosaico della Battaglia di Isso.

L’utima gita invece l’ho raccontata: scuole superiori, mi hanno portato ad Acerra nello stabilimento Montefibre e ho pure mangiato con gli operai che jastemmavano la madonna vergine perché avrebbero licenziato tutti. Tornai a casa con la crisi di nervi e fu lì che scelsi di fare il sindacalista dei giornalisti (no, quest’ultima parte non è vera, però c’azzecca benissimo).

Ascoltami, i poeti laureati si muovono soltanto fra le piante dai nomi poco usati

«Non vorrei essere Bach, Mozart, Tolstoj, Joe Hill, Gertrude Stein o James Dean. Sono tutti morti, i grandi libri sono stati scritti, i grandi detti sono stati pronunciati: Voglio solo mostrarvi  un’immagine di quello che succede qui qualche volta, anche se io stesso non capisco bene che cosa stia succedendo».
Bob Dylan

Alla fine, non ho fatto solo due delle cose che volevo: indossare il fiocchettino anarchico, quello di cui si parla in “Amarcord” di Fellini, marciare cantando “Viva Topolin” come il soldato Joker in “Full Metal Jacket” pensando che sì, «sono proprio contento di essere vivo, tutto d’un pezzo, e prossimo al congedo… certo vivo in un mondo di merda, questo sì, ma sono vivo e non ho più paura».
Però la discussione di una tesi di laurea, come tutte le cerimonie pubbliche, è una cosa che non ti appartiene. È una sintesi di momenti vissuti da te ma attesi e immaginati dagli altri in un certo modo. Com’è giusto che sia.

Dopo il bailamme, qualche cosa da dire mi viene. Mi sono laureato a trentatrè anni, in una caldissima giornata, in un’aula magna raffreddata dall’aria condizionata, Scienze della Comunicazione, tesi sugli “Anni zero del giornalismo” e su  come cambia il lavoro del cronista coi nuovi mezzi di comunicazione.  Mi sono laureato all’Università di Cassino, dove sono andato armato delle peggiori intenzioni: c’era quel progetto “Laureare l’esperienza” per i giornalisti che tante lauree (e inchieste di Report) ha generato  Ma due anni fa, trovandomi davanti ad un bivio  – accettare “zitto e muto” i generosi crediti universitari o optare per una nuova normativa “regolatrice” di questo programma universitario che forse aveva sovrastimato “l’esperienza” dei cronisti – ho deciso, così come molti amici, una strada più faticosa, più adatta a me.  Quindi mi sono laureato come un qualunque giovanotto fresco di diploma.

E non è stato manco tanto facile: sono stato bocciato ad un paio di esami scritti, ho dovuto studiare quando ero alle prese con la campagna elettorale per le elezioni regionali, quando  E Polis è andato a puttane, ho dovuto trovare la serenità nei libri sulla storia del giornalismo o sui meccanismi della comunicazione quando intorno a me tutto era il caos. Al datore di lavoro non gli importa poi tanto del tuo professore di Storia delle Idee: se non porti la notizia e riempi la pagina non c’è Machiavelli che tenga.

Per me questa laurea è stata una specie di rivincita, un mucchio di anni fa ero uno di quei signorini taciturni con in mano troppi libri strani che frequentavano Lettere a Porta di Massa, Napoli, Federico II.
Dall’Istituto Tecnico industriale statale “Enrico Fermi”, alla cattedra di Letteratura Italiana a discutere i Promessi Sposi che manco avevo studiato alle scuole superiori. Lì leggevamo Primo Levi ed Elio Vittorini e questo mi ha cambiato la vita, ringrazio ancora Manina Consiglio per questo.  Trenta e lode, il favoloso professor Raffaele Giglio: «Bravo! Lei da che liceo viene?». Poi il lavoro, troppi casini per continuare con tranquillità e tasse eccessivamente onerose per restare a parcheggio aspettando tempi migliori.

Chi di voi ha presente la gavetta in un piccolo giornale cittadino di cronaca? Non c’era tempo manco per respirare, se volevi guadagnarti l’apertura in una pagina di giornale e la speranza di un contratto.

Ricordo Emilio che scriveva la tesi tra i mattinali e la radio della polizia. E Gabriele che faceva la tratta Napoli-Scafati sul bus della Vesuviana coi libri di latino in mano. Sembravano passati mille anni, ora che ne scrivo sembra ieri.

Per anni ho avuto in odio le università, probabilmente perché non ero riuscito a dare ai miei “la soddisfazione” di una laurea. Ne sono quasi certo: nell’ultima settimana il mio sogno ricorrente era quello di veder crollare tutto un attimo prima della mia discussione.

Quando andammo a Cassino per la prima volta eravamo in quattro. Quattro ceffi in un’auto scura, ci fermarono 3 posti di blocco nel raggio di due ore.  Ci iscrivemmo, tornammo di corsa al giornale, mangiando un enorme panino ciocaro per accorciare i tempi del pranzo e metterci al lavoro.  Ieri accompagnando la mia famiglia, mi è tornato in mente quel momento.

C’era Alberto che sarebbe morto di lì a poco, quella era l’ultima volta che avremmo parlato a lungo di noi, delle nostre vite. E ieri a lui ho pensato subito, quand’è finito tutto, sono uscito per prendere aria ho visto un cielo azzurro, assolato, sereno.