Appunti per una scuola di giornalismo (ma che ne sai, se non hai fatto il giornale locale)

«Figlio mio, da quanto frequenti quella … scuola di giornalismo?»
«Da tre anni».
«Tre anni gettati via. Io non ho fatto nessuna scuola ma so come dare una notizia, perché prima di fare i giornali io li ho venduti agli angoli delle strade, e sai la prima cosa che ho imparato? Le brutte notizie vanno a ruba. Buona nuova, nessuna nuova».
(da The ace in the hole, l’Asso nella manica)

Caro aspirante collega,
mentre tua madre guardando Michele Saviani, il giornalista della soap opera “Un Posto al sole”, sussurra «così devi diventare, figlio mio»  (e tu hai voglia a spiegarle che quella non è proprio la vita del giornalista, cazzo, e semmai vuoi diventare come Marco Travaglio o come Lamberto Sposini che è pure figo) e tu stringi gli esosi bollettini di conto corrente della scuola postlaurea di giornalismo – quelli che hai appena pagato – io vorrei mostrarti altre cose.

Vorrei mostrarti, caro aspirante collega giornalista, le storie di questo mestiere nei piccoli e polverosi stanzoni della cronaca di provincia. Oh, non iniziare subito con quegli occhi languidi. Pensi sia davvero così poetico, che faccia molto “The frontpage”. Embè, nunn ‘e capito niente.
Lascia che ti spieghi. Vino e aceto sono simili,  basta poco per tramutare uno nell’altro ed è impossibile tornare indietro da questo processo.

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– PRIMO CRONISTA: «Sposta l’impiccaggione alle 5, così ci eviti l’edizione straordinaria»
– SCERIFFO: «Andiamo, non possiamo mica impiccare uno mentre dorme per far contenti i giornalisti. Non è carino!»
– SECONDO CRONISTA: «No, ma avete sospeso l’esecuzione due volte per farla avvenire alla vigilia elettorale…»
(da Prima Pagina)

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Guarda i titoli che ho riportato qui. Il primo dileggia un uomo tradito, il secondo rende ridicola una vicenda di violenza. Tutto si calpesta pur di ottenere titolo  ben riuscito? O no? La questione è dibattutissima. È una faccenda di virilità deskistica. Un poco come quella battuta sulle dimensioni dei genitali maschili: è meglio averlo grande o saperlo usare?  E quando l’altro risponde “saperlo usare”  la battuta è servita: “questo qui è un altro che ce l’ha piccolo”.

Sull’altare della notizia accattivante sacrifichi la verità dei fatti e ottieni un titolo brillante, è il dilemma di ogni giorno per il cronista. Però dovresti sapere, caro amico aspirante giornalista, findove ti puoi esporre.

Quando a Napoli c’era un giornale che si chiamava “La Verità” (sottotitolo “il giornale dei napoletani veraci”) il numero 1 fu quello che vedi in quest’immagine. Il senso del titolo era “Bill Gates, compraci il Calcio Napoli”. Negli anni a venire per quella vocazione popular qualcuno dei colleghi lo definì «giornalaccio», qualcun altro, mi riferisco all’allora arcivescvovo di Napoli accusato d’usura (e poi assolto) addirittura lo scomunicò dall’altare del Duomo durante la messa per San Gennaro. Un fatto storico.

Io posso dire che mi ricordo titoli sguaiati, alluccati. Anche a volte uno scarso rispetto per i protagonisti di squallide vicende di cronaca. Ironici, taglienti, forse in taluni casi fuori luogo. Ma titoli come quello sull’ortolano o sul cornuto, beh, mai.

Non te lo scrivo per farti vedere che era meglio prima e che ora, signora mia, non si capisce più dove si va a finire. Ti dico che nei 10 anni di militanza (di tale si trattava e non per logica politica ma perché soldati al servizio della cronaca ci si sentiva, forse esagerando) la consapevolezza di un ruolo e di certi doveri che questo ruolo impone, anche nei titoli, andava via via crescendo. Siamo cresciuti col giornale e titoli di merda non ne abbiamo fatti più, io personalmente ho imparato abbastanza bene a rendere fedelmente ciò che il collega scriveva nel pezzo. Il problema è che nell piccole redazioni di provincia non si cresce più professionalmente. Noi fummo fortunati, la lezione però l’abbiamo imparata sulla nostra pelle. Tu hai la possibilità di imparare (del resto paghi per questo, no?) .

Quindi studiala bene questa cazzo di deontologia del giornalista.

Però non studiarla per poi mettertela in saccoccia, per poi non combattere per la sua applicazione, per poi far finta di nulla e darsi una pacca sulla spalla, di sera, davanti al computer della prima pagina, con un titolo di merda composto a caratteri cubitali e tutta giustezza. Credimi, nessun titolo brillante vale lo sgarro che fai a questo mestiere, per esercitare il quale spendi denaro, butti tempo e metti speranza, caro studente. Una speranza che alla tua Università vale almeno 3mila euro all’anno e non è manco sicuro che poi ci riesci. Ricordatelo e auguri.

Giornali e contributi? Tutto ok, grazie

Dopo una sbornia collettiva di “Caste” varie,  è finito il tempo di preoccuparsi dei contributi ai giornali, giusti o cattivi che siano.

E invece proprio in questi giorni, individuo i contributi erogati nel 2008 sul solito sito internet del Dipartimento per l’editoria. Resto sorpreso: ma non dovevano calare (almeno questo era il pianto greco collettivo)? Macchè. Individuo fra le coop anche il mio  vecchio giornale, “La Verità” passato di mano e diventato da giornale di cronaca un giornale di cavalli e scommesse. E alla “Contributi alle imprese editrici di periodici di cooperative, fondazioni o enti morali” una interminabile serie di “Voce” (Del Popolo, Di Dio, Dei Berici, Pastorale…) e di “Vita” (Casalese, Cattolica, Giuseppina, Nuova…).

Statte buono, Putipù

domeni-di-meglio-ischia

«Embè, tu vuoi fare il giornalista? E mo’ te lo faccio fare io».
Domenico Di Meglio, in redazione a Napoli. Un pomeriggio di molti anni fa

Questo è un ricordo che avrei dovuto scrivere ieri; poi il giornale, la chiusura, le telefonate. Ma la mia memoria va a quel pomeriggio di tanti anni fa, quando entrai nell’ultima stanza a destra, in un palazzone alla fine di via Duomo, di fronte il porto e la via Marina. Venti minuti per finire con una macchina fotografica digitale – una delle prime in Italia, costava  oro e avevo una fottuta paura che me la rubassero – lungo i vicoli alla ricerca della nutizia. «Perché tu vuoi fare la cronaca? Fai bene, è un bel settore. Ma s’adda fatica’, eh?».
Così diceva Domenico Di Meglio, Mimì per gli amici e per me solo “direttore”. Fu lui ad accogliermi a “La Verità”,  battagliero giornale «dei napoletani veraci», giornale che i napoletani hanno dimenticato ma che è tatuato sul cuore di chi vi lavorò. Ora Mimì Di Meglio non c’è più ma i nercologi li lasciamo agli altri. Particolarmente  negato al computer, dettava ad alta voce tutta la prima pagina, ogni sera. Uno spettacolo, perché quella composizione era infarcita di battute e  sferzate ai giornalisti: «Li dovete fa tremare».

Noi ci abbiamo provato, direttore, qualcosa è andata bene, qualcos’altra no.

Siccome è morto sul campo, seduto alla scrivania della sua creatura, “Il Golfo” di Ischia (dove Mimì Di Meglio era “il giornalista”) lo immagino come un pirata alla guida del suo vascello a caccia di notizie, di fetienti da fustigare, un predatore che sfida la sabbia del deserto e l’indifferenza generale verso chi non ha voce. In mano nessuna spada, nessun fucile: ma il putipù, quello strumento musicale del folklore napoletano il cui suono è a metà fra uno sberleffo e un tuono. Dedicata al putipù fu la  sua rubrica che per anni tenne banco sulla “Verità”.  Parole schiette, che non guardavano in faccia a nessuno.
Ciao direttore, non me ne vorrai se non vengo al funerale, sono sicuro che avresti preferito che lavorassi, oggi, per portare una buona notizia in cronaca. Così come mi chiedesti, quel pomeriggio di tanti anni fa.

Chiude Napolipiù

Il primo articolo porta la data ottobre 1998, era sui disservizi dei bus napoletani e mi tolsero uno “stronzo” di troppo dal pezzo. Poi ho imparato a descrivere stronzi nei pezzi ma senza scriverlo apertamente, quando ho deciso di voler davvero fare questo mestiere. Se fossi rimasto lì, quest’anno avrei festeggiato dieci anni di fila nella stessa redazione, sempre nel tentativo di imparare a fare il giornalista….

E invece il quotidiano “Napolipiù” – già “la Verità” – chiude e con esso cala il sipario su un capitolo interessante, quanto complesso, della carta stampata napoletana. E della mia vita, ma questa è un’altra storia.

Quando si chiamava “la Verità” ed era il giornale dei “napoletani veraci”, ha formato, o in alcuni casi contribuito a far crescere e campare, tanti bravi professionisti. Qualcuno ora è in Rai, in Mediaset, qualcuno al “Mattino” di Napoli, qualcun altro ancora è andato a Roma e lì ha avuto fortuna. Forse, anzi, sicuramente, anche grazie a quella scuola così dura, cinica e spietata. Da cronisti di strada.

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