L’ultima lettera di Franco Fortini

Questa lettera di Franco Fortini la tengo qui, a imperitura memoria di ciò che si dovrebbe essere, dire, pensare. È datata 5 novembre 1994 ed è indirizzata ad alcuni amici: fu inviata al Corriere della Sera da Carla Fracci e Beppe Menegatti dopo la morte del poeta. Non so se effettivamente sia stata proprio l’ultima lettera. Ma per la potenza che l’accompagna la si può definire sicuramente un testamento pubblico, civile, morale, intellettuale.

Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non invisibili agenti e spie; non chiari ma visibili nemici. Sapete chi sono. Non sono mai stato né volteriano né liberista di fresca convinzione. Spero di non dover mai stringere la mano né a Sgarbi né a Ferrara né ai loro equivalenti oggi esistenti anche nelle file dei “progressisti”. Non l’ ho fatto per mezzo secolo. Perché dovrei farlo ora? Nessuna “unità” anni Trenta. Meglio la destra della Pivetti.
Ognuno preghi i propri santi e dibatta con gli altrui. Tommaso d’ Aquino, Marx, Pareto, Weber, Croce e Gramsci mi hanno insegnato che la libertà di espressione del pensiero, sempre politica, è sempre stata all’interno della cultura dominante anche quando la combatteva. Tutt’intorno ai suoi confini, però, c’erano, lungo i secoli, miliardi di analfabeti, inquisizioni mistiche o, a scelta, grassi doberman accademici, reparti speciali di provocatori incaricati di picchiare i tipografi e distruggere i manoscritti.
Ci sono manuali per l’uso della calunnia nel management della comunicazione, lupare bianche, colpi alla nuca; o, nel più soave e incruento dei casi, la damnatio memoriae, il nome omesso o deformato, la associazione indiretta con qualche notorio cialtrone.
Ma ci sono momenti in cui il solo modo serio di dire “noi” è dire “io”. La prima persona, quel qualcosa che viene dopo la firma. Questo è uno di quei momenti.
Bisogna spingere la coscienza agli estremi. Dove, se c’è, c’è ancora per poco. Quando non si spinge la coscienza agli estremi, gli estremismi inutili si mangiano lucidità e coscienza.
Chi finge di non vedere il ben coltivato degrado di qualità informativa, di grammatica e persino di tecnica giornalistica nella stampa e sui video, è complice di quelli che lo sanno, gemono e vi si lasciano dirigere. Come lo fu nel 1922 e nel 1925.
Non fascismo. Ma oscura voglia, e disperata, di dimissione e servitù; che è cosa diversa. Sono vecchio abbastanza per ricordare come tanti padri scendevano a patti, allora, in attesa che fossero tutti i padri a ingannare tutti i figli. Cerchiamo almeno di diminuire la quota degli ingannati. Ripuliamo la sintassi e le meningi. Non scriviamo un articolo al giorno ma impariamo a ripeterci, contro la audience e i contratti pubblicitari. Diamo esempi di “cattiveria” anche a quei lavoratori che dai loro capi vengono illusi di battersi attraverso le strade con antichi striscioni e poi, nel buio della Tv, ridono alle battute dei pagliaccetti di Berlusconi.
Lungo canali di storica vigliaccheria mascherata di bello spirito i colleghi della comunicazione stanno giorno dopo giorno cambiando o lasciando cambiare i connotati dei quotidiani; in attesa che se ne vadano quei pochissimi direttori che non hanno già concordato o “conciliato”.
Quanto a me, solo l’ età mi scampa dal dovermi dimettere. Mai come oggi, credo, il massimo della flessibilità tattica del politico vero dovrebbe andar d’accordo con la rigidità delle scelte di fondo. Un modesto zapping basta a capire che è inutile declamare estremisticamente, come ora sto purtroppo facendo.
Bisogna dire di no; ma c’è qualcosa di più difficile e sto cercando di farlo: dire di sì in modo da non nascondere il “no” di fondo; se si crede di averlo e saperlo.
Pagare di persona, secondo le regole del finto mercato che fingiamo di accettare: ossia dimettersi o costringere altrui alle dimissioni, ritirare o apporre le firme e le qualifiche e il proprio passato, affrontare sulla soglia di casa o di redazione le bastonature fisiche o morali già in scadenza.
Anni fa scrissi, enfaticamente, che il luogo del prossimo scontro sarebbero state le redazioni. Quel momento è venuto, il luogo è questo.
Chi tiene famiglia, esca. Chi ha figli sappia che un giorno essi guarderanno con rispetto o con odio alle sue scelte di oggi.
Scade il primo semestre di chi ha preso il potere, come tanti altri, legalmente, coi voti di un terzo degli elettori, ossia giocando con la manovra della informazione e la debilità culturale ed economica di tanti nostri connazionali e, perché no, con la nostra medesima.
Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non sempre invisibili agenti e spie; non chiari ma visibilissimi nemici, vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. Dimenticatelo se potete.

Franco Fortini
Milano, 5 novembre 1994

Se l’eroe è Clark Kent: querele e libertà di stampa

superman

(la vignetta è presa da Il Giornalaio)

Ho aspettato giusto una settimana, il tempo di smaltire un raffreddore e digerire l’ondata di parole, facce, slogan e ancora parole, parole.
Insomma: anche io sono stato a Roma, in piazza del Popolo, per la manifestazione in favore della libertà di stampa. Qualcuno ha detto che poi proprio i giornalisti non c’erano. Non è andata così, c’erano ma senza strafare. Non li han visti? Non è arrivato (ancora) il momento in cui saremo obbligati ad andare in giro con stelle cucite in petto. Anche se a volte penso che i badge, tesserini e gli accrediti con i quali si vincola l’informazione a muoversi nei palazzi del potere (dallo stadio alla procura), tanto assomigliano a quegli odiosi simboli di un terribile passato. Ma forse sono io che tendo all’esagerazione.
Ora: duecentociquantamila, ducecentomila, sessantamila, proprio non lo so. So per esperienza diretta che non eravamo pochi, c’era una piazza piena e che le strade attigue erano tutte stracolme di manifestanti. So anche che c’erano i trupponi sindacali arrivati che so, da Massa Carrara come da Torino, ma non ci vedo un male, se si  considera la “questione libertà di stampa” un tema tanto importante da giustificare una sfacchinata in una Roma paralizzata.
Perché un giornalista va ad una manifestazione del genere? Anzitutto perché, ogni tanto, col vento a favore e chiedendo ‘scusa’ e ‘permesso’, avendo la notizia a portata di mano si gradisce andarla a vedere piuttosto che farsela raccontare o fare la somma algebrica tra quanto riportano giornali, tv, internet.
Io poi ci sono andato per ricordarmi dove stava la mia incazzatura. Dice: ovvio, era contro Berlusconi.

Mica tanto.

A costo di sembrare strumentale, posso però dire che tra i politici napoletani che mi hanno querelato, chiesto risarcimenti o minacciato ritorsioni penali non ce n’è uno che non sia di centrosinistra. Qui, infatti, il potere che per anni ha influenzato, modificato, distorto e aggredito la stampa locale è per lo più definibile nell’area di centrosinistra. Discorso difficile: si tende a sorvolare sul particolare e guardare la grandezza di quanto è stato fatto a Roma,  una sollevazione contro l’aggressione legale verso chi poneva domande al premier.
Beh, sappiatelo a Napoli, periferia dell’impero, è stato fatto altrettanto.  Mi piacerebbe, un giorno, raccogliere tutte le storie dei colleghi querelati o invischiati in procedimenti civili per aver avuto l’ardire di toccare qualche piccolo santuario vesuviano.
Dice: ma sono storie piccole. Sarà. Ma in questo aveva sacrosanta ragione Roberto Saviano, in piazza: «Verità e potere non coincidono. Mai».

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Ci sono diversi modi in cui si viene a conoscenza di una querela. In molti casi l’interessato la annuncia platealmente. Oppure il suo avvocato procede in silenzio, magari senza manco pregiarsi di chiedere rettifiche o spiegazioni.
L’atto arriva a casa e in redazione, in taluni casi anticipato da una telefonata dei carabinieri o dei poliziotti. Questo se è una querela. Se è un risarcimento in sede civile, arriva l’ufficiale giudiziario.
Da queste parti, i giornalisti cazzuti dicono che «sono tutte medaglie, le querele». Lo penso anche io.  Ma come sanno i veterani, le medaglie non aggiustano le ossa che ti sei rotto in battaglia, nè sanano le ferite. Una querela – e non dico che siano tutte ingiuste ma una buona parte entra a far parte delle cosiddette “liti temerarie” – è una preoccupazione per te e una implicita arma di censura. Molti giornali, ammesso che non stiano facendo “guerre sante” contro qualcuno o qualcosa, spesso cercano di chiuderla lì, con articoli riparatori, smentite a tutto campo, azioni di riavvicinamento. O nel caso più odioso, la promessa che quel cronista non si occuperà più di tizio o caio. I tempi della giustizia sono quelli che sono, lo stillicidio dura anni e vi assicuro che non è piacevole, avere una spada alla gola per due-tre anni.

La prima minaccia di querela che ho avuto io era ben al di sopra delle mie aspettative: un notabile di partito risentito per un articolo. Ma si limitò ad una sfuriata. Poi invece, fedele alla figura dei «nemici cortesi» del mio amato Franco Fortini, una ne è arrivata invece da un giovane, di centrosinistra. Dimostrerò che nel mio pezzo c’erano «verità, pertinenza e continenza».

Aspettando quel momento, ho visto la sua convinta adesione in calce all’appello per la manifestazione sulla libertà di stampa.