In questa prima parte dell’anno che mi ha visto passare da Londra a Berlino ho definitivamente fatto cadere la maschera: l’inglese e io non siamo proprio amici. Non ci capiamo, vorremmo. Cerchiamo di trovare nuove strade ma è complicato. A Gerusalemme capivano anche i miei latrati anglofoni da imbecille, in Germania invece no, finivano per rispondere con una cazzimma allucinante in dialetto stretto tedesco arrabbiato. Così finisce che per leggere un articolo di giornale ci metto il triplo degli altri, per capirne il senso e non tirare a indovinare, tengo in bella vista i link del vocabolario on-line e soprattutto il malefico traduttore di Google (che traduce robe del tipo “andare tu fatto computer device aggiustare alee oh-oh”). E dire che io lo amo, l’inglese: più mi faccio vecchio e più sento la necessità di leggere e capire in inglese. Insomma, lo sto ristudiando.
Però certe cose poi bisogna dirle: tutto questo casino dov’è cominciato? A scuola.
Alle medie, nonostante immane sforzo mnemonico non riesco a ricordare chi fosse il mio o la mia insegnante d’inglese. Eppure i prof non si scordano mai: evidentemente questo/a imbecille dev’essere passata in maniera così superficiale nel mio corso di studi da non lasciarmi niente. Il vero capolavoro però, l’hanno fatto le scuole superiori.
Primi due anni, Tecnico industriale, biennio sperimentale (internet e inglese, su internet sorvolerei per ora).
Professoressa ipercattolica, andava vestita tipo gli Amlish e puzzava da una ventina di chilometri di distanza. Ci costringeva ad alzarci in piedi (sto parlando degli anni Novanta, non ho fatto le scuole con Garrone e Franti) e recitare l’Ave Maria in inglese.
Hail Mary, full of grace. The Lord is with thee. Blessed art thou amongst women….eccetera eccetera. Nel corso della preghiera, io davo sfogo alla mia personale frustrazione menando iastemme così potenti e strutturate da far cadere l’intera Cappella Sistina, mischiate fra un “Holy Mary” e un “the fruit of thy womb, Jesus”. Ci andava di mezzo un compagno di classe che aveva gli occhiali molto spessi, a culo di buccaccio. E lui, durante la preghiera, replicava agli insulti con inventiva degna di autisti del bus sciasciani. Ci costringeva a mandare lettere in inglese al Wwf. Un giorno il Wwf inglese ci rispose, piuttosto risentito, con un tono del tipo “il Wwf c’è anche in Italia, perché cagate il cazzo a noi?”. Ma lei era soddisfatta. Così sono passati i miei due anni di inglese sperimentali.
Con questa straordinaria base di biennio, i tre anni successivi di Chimica industriale sono stati una passeggiata. E’ arrivata a me una tizia strana, incrocio tra la nonna della candeggina Ace e la Signora in Giallo. Una marea di fotocopie, uno tsunami di unit, translate into, vocabolari Collins, audiocassette. Poi dopo le buone intenzioni attaccava a parlare della figlia coinvolgendo tutti sulla scelta: 1) della palestra; 2) della facoltà universitaria; 3) delle scarpe; 4) dei cappottini. Due anni così. E l’ultimo, invece, tutto dedicato all’inglese tecnico. Ovvero: fai chimica? Devi sapere che si dice Chemistry, che l’Ossigeno si dice Oxygen e così via. Poi se non sai manco chiedere dov’è il cesso, non è un problema. Figurati se uno che ha fatto l’Istituto tecnico industriale statale va in Inghilterra. E invece ci sono andato, andato brutte bagasce, e mi sono dovuto scrivere una frase fondamentale: “Help, i’m lost”.
Aspettando il British Institute che verrà.