L’Italia da distruggere, il giornalismo, le nostre vite

«In Vietnam guidavo un aereo, guidavo un carro armato, disponevo di attrezzature per milioni e qui non riesco neppure a trovare un posto da parcheggiatore».
John J. Rambo (il primo della serie)

Sfoglio le paginette intestate “Ministero del Lavoro”, c’è la mia sigla e la mia firma per esteso: le ho sottoscritte, ero fra quelli al tavolo sindacale che hanno accettato il suono dell’inevitabilità, ovvero la morte di EPolis, il giornale per il quale, negli ultimi quattro hanno ho prestato la mia modesta opera di redattore. Anche due anni accadde più o meno la stessa cosa, ma si risolse in maniera decisamente migliore, con un nuovo imprenditore e una nuova avventura. Stavolta pare sia decisamente più difficile quest’epilogo, debiti e difficoltà varie rendono complicato il salvataggio di questo vascello pirata, 146 dipendenti, 118 dei quali giornalisti. Ne avete sentito parlare in giro? Poco, pochissimo.

Potevamo stare più attenti e lanciare l’allarme prima? Forse sì. Potevamo  impedire che ciò accadesse? Sicuramente no. In Italia se rubi in un supermarket te la vedi brutta con la legge. Se succede qualcosa che supera il milione d’euro ed hai un buon pool di avvocati, commercialisti, specialisti in spezzatini societari, dormi fra quattro guanciali.

Ho capito solo dopo, che ero già inconsciamente preparato, all’evenienza del crac. Non era dunque un caso, il sentirsi più affine al Coordinamento giornalisti precari costituito con tanti amici un anno fa, che al sindacato d’appartenenza, la Fnsi.

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Quando fallisce un lavoro del genere c’è sempre qualcuno che ti mostra il lato buono. E ti sembra di sentire quello slogan che recita «è tutto intorno a te».

In effetti le possibilità ci sono e riesci anche a toccare con mano queste nuove  possibilità. Se sei bravo, talentuoso o comunque se hai voglia di lavorare non è difficile. Salvo poi voler salire il gradino successivo e scontrarsi con la realtà di certi fatti, ed è qui che vengo alla seconda storia, quella di Paola Caruso.
E’ una persona che non conosco se non da qualche twit. Lavora al Corriere della Sera da precaria, lo fa da sette anni. Sul sito web del Corsera ho contato circa 400 suoi articoli. Uno degli ultimi era titolato così:

Poi a Paola, lo racconta suo blog, è successo qualcosa.

La scorsa settimana si è liberato un posto, un giornalista ha dato le dimissioni, lasciando una poltrona (a tempo determinato) libera. Ho pensato: “Ecco la mia occasione”. Neanche per sogno. Il posto è andato a un pivello della scuola di giornalismo. Uno che forse non è neanche giornalista, ma passa i miei pezzi.
Ho chiesto spiegazioni: “Perché non avete preso me o uno degli altri precari?”. Nessuna risposta. L’unica frase udita dalle mie orecchie: “Non sarai mai assunta”.

Insomma, lei ha fatto lo sciopero della fame, nel momento in cui scrivo lo sciopero è ancora in corso. In Rete si è sviluppata una mobilitazione massiccia dopo la quale il direttore del Corriere ha risposto che no, non c’era motivo di prendersela per un contratto a tempo determinato.  Siccome la Rete dà e la Rete prende è successivamente nato un piccolo ma gruppo di scettici/scontenti, persone la cui idea è che non si può sperare in un lavoro a tempo indeterminato dopo aver prestato opera per anni nello stesso giornale, che la meritocrazia, il libero mercato, eccetera. 

Indignati autentici, indignati professionali, tanti flame sui social network. Ma presto in Rete torneranno tutti ad interrogarsi su altro. Che so, l’impatto dell’iPad sulle vendite dei quotidiani, su quanto il bottone di Facebook nei blog abbia cambiato l’informazione. E,  incredibile a dirsi, ci si scorderà per l’ennesima volta dei manovali dell’informazione, di questi fantomatici precari schiacciati ad ogni crisi aziendale, dileggiati ad ogni richiesta, esclusi da  ogni vera contrattazione sindacale.
I precari nel giornalismo italiano sono un poco come andare dal fruttivendolo. Come gli “odori”. Prezzemolo, carota, basilico, sedano. Fondamentali per il brodo finale, ma  alla fine, di scarso rilievo “commerciale”. Non gliene frega niente a nessuno. Finquando non manca all’appello la loro necessaria opera.

Dunque precario significa che lavori per concessione altrui. Fare il giornalista per concessione significa essere l’anello più debole di una catena già bacata.  Si parla di bavagli e libertà d’informazione dimenticando che un precario non sarà mai autonomo. E il suo prodotto, l’informazione, ne risentirà.

Che dovrà succedere, ancora, nel giornalismo italiano affinché qualcuno si accorga di questo dramma, identico a quello del comparto metalmeccanico, chimico, dei servizi, dei trasporti (solo che lì non ci sono scuole universitarie di giornalismo a 12mila euro)?
La prossima Paola cosa dovà fare, per attirare l’attenzione su un problema così gigantesco? Il mito del giornalista cinico appartiene solo a chi ha soldi e posizione per vivere tranquillo. Per il resto, vale Ungaretti: come d’autunno sugli alberi le foglie.


La scuola dei giornalisti magna e bevi

“Comunicazione e giornalismo multimediale enogastronomico”. E fin qui è il solito master di primo livello, il solito master da 6mila euro per specializzare il giornalista, stavolta nella classica formula “mangia e bevi”.

Ma il master che oggi il Suor Orsola Benincasa ha presentato ha qualcosa di singolare, di strano. E inaccettabile.  Van bene 1.500 ore di lezione, ok per il costo, 6mila euro. Ma il fatto che questo master annuale valga come un anno di praticantato per diventare giornalista professionista secondo me è una cosa allucinante. Ridurre la conoscenza di una professione a materie del tipo “Analisi del settore agro-alimentare in Italia”; “Marketing del settore agro-alimentare e del turismo”; “Organizzazione e marketing degli eventi enogastronomici”; “Marketing food & Wine on line” o “Food branding” è davvero inaccettabile.

Giornalismo, se lo stage è per pochi eletti

In Italia, i migliori stage per giornalisti vengono affidati ad amici degli amici (anzi, ai figli degli amici degli amici eccetera) o alle scuole di giornalismo più care. Il risultato è che uno stage, notoriamente non pagato, devi potertelo “permettere”: ci vuole qualcuno che ti dia vitto e alloggio.  E non ti stia dietro le spalle a dire «ma quando inizi a guadagnare?». Condizione comune a tanti colleghi, il risultato è che nel mondo dell’informazione italiano lo stagista è carne da macello, usato per il “lavoro sporco” che va contro ogni contratto e ogni dignità. Odiato da tutti: dai colleghi e disprezzato anche ai piani alti dell’azienda. David Randall per Internazionale descrive bene la situazione inglese. Quella italiana è ancora peggio.

Da una decina di anni faccio parte di un’organizzazione che sfrutta le ragazze. Cioè, a dire la verità, anche i ragazzi: non facciamo discriminazioni.

Siamo pronti ad approfittare di chiunque sia disposto a sottoporsi a quello che gli americani chiamano internship e qui a Londra si chiama “esperienza di lavoro”. In altre parole: sfruttiamo i giovani che vogliono diventare giornalisti e sono disposti a lavorare gratis, per settimane o perfino mesi, in cambio di un po’ d’esperienza e della possibilità di scrivere nei loro curriculum che hanno passato un periodo di tempo nella redazione di un quotidiano nazionale.

Questo sistema, che qualcuno considera una truffa, è cominciato per quanto ne so una quindicina d’anni fa. All’epoca ci fu un notevole aumento dei corsi di giornalismo (che per le università affamate di soldi sono una laurea facile da offrire a potenziali studenti), unito a una diminuzione dei posti da praticante nelle principali testate britanniche. Da questo squilibrio tra aspiranti giornalisti e posti disponibili è nata “l’esperienza di lavoro”, una soluzione che in teoria avrebbe dovuto accontentare tutti. I giovani fanno esperienza, forse imparano anche qualcosa, e noi abbiamo personale gratis.

All’inizio erano tutti figli di colleghi, ma poi si è sparsa la voce. La settimana scorsa l’edizione domenicale del mio giornale aveva sei stagisti, e in passato ne abbiamo avuti anche di più, e oggi quasi tutti i quotidiani ne hanno qualcuno.

In alcuni giornali gli stagisti stanno seduti in un angolo, preparano il caffè e sono abbandonati a loro stessi. All’Independent on Sunday, invece, gli chiediamo di fare le ricerche online, di contattare nuove fonti e, ogni tanto, di scrivere qualche box informativo o una didascalia.

Sono sotto la stretta supervisione dei reporter più anziani o dei caporedattori e alcuni rispondono magnificamente, lavorando in modo intelligente e fermandosi volentieri in redazione anche dopo l’orario stabilito. Voi direte che si tratta di sfruttamento, ma dato che sono lì per imparare e fare esperienza, più si danno da fare e meglio è.

I veri sfortunati sono quelli a cui non viene affidato nessun compito, a volte perché mostrano poco talento e scarso entusiasmo. Molto raramente, se uno stagista sembra davvero promettente, gli chiedo di scrivere un articolo di cronaca a partire da un lancio di agenzia. E ogni due anni mi capita un laureato talmente eccezionale che lo “adotto” subito, gli regalo uno o due libri da leggere e continuo a interessarmi a lui anche dopo che se n’è andato. Dieci anni fa avevo trovato una ragazza che era chiaramente una giornalista nata. L’ho segnalata al miglior corso di giornalismo, le ho dato consigli mentre si faceva strada nei giornali più piccoli, e quattro anni fa è stata assunta da un quotidiano nazionale. All’inizio dell’estate io e mia moglie siamo andati al suo matrimonio. Vederla crescere così è stata una soddisfazione, come se fossi stato suo padre.

Come molti giovani che hanno lavorato con me, e che hanno ricavato molto dalla loro esperienza, mi è riconoscente. Ormai siamo arrivati a far conto su queste persone per svolgere il faticoso lavoro della ricerca di base. Senza gli stagisti non potremmo farlo.

Allora è un sistema vantaggioso per tutti? Non proprio, perché ci sono tre aspetti del sistema che non mi piacciono. Primo: dato che non li paghiamo (e non possiamo permettercelo e se fossimo obbligati a farlo dovremmo rinunciarci), qualcuno deve dargli da mangiare, da bere, una casa e soldi da spendere. E di solito quel qualcuno sono i loro genitori. Il risultato è che sono quasi tutti figli di persone benestanti (e spesso anche i loro genitori lavorano nel mondo dell’informazione).

Secondo: ormai per chiunque speri di trovare un lavoro è indispensabile poter mettere nel suo curriculum una serie di esperienze. Di conseguenza questo sistema diventa una forma di discriminazione di classe. Se i vostri genitori non possono permettersi di mantenervi per mesi mentre lavorate gratis, in pratica siete esclusi dal mondo del giornalismo.

Terzo: ora che giornali e riviste hanno a disposizione questo personale gratuito (e nei giornali di provincia gli stagisti non solo aiutano i reporter ma scrivono anche gli articoli), il numero di assunzioni è diminuito.

Se abolissero l’intero sistema io sarei d’accordo, ma dato che difficilmente succederà, cosa possiamo fare per migliorarlo? Anche se io e il mio direttore ogni tanto cerchiamo di dare qualcosa ai più meritevoli, pagargli uno stipendio è fuori questione.

I giornali come il mio perdono più soldi di quelli che guadagnano. La soluzione che suggerisco è di chiedere agli editori di creare un piccolo fondo. Gli aspiranti stagisti potrebbero chiedere una borsa di studio, e solo quelli che la ottengono potrebbero lavorare in redazione.

Il numero degli stagisti si ridurrebbe molto ma il metodo sarebbe più giusto e allontanerebbe il sospetto di sfruttamento. Garantirebbe anche che chiunque voglia entrare nel mondo del giornalismo sia giudicato in base alle sue capacità e non dal conto in banca dei suoi genitori.

Quando fuori è mattina presto

«Come ti senti amico, amico fragile,
se vuoi potrò occuparmi un’ora al mese di te
»

L’alba dei giornali è puro petrolio. Composizione, stampa e diffusione bevono benzina, in quella fase nessuno pensa a quello che un pugno d’ore prima ci è voluto per scrivere gli articoli: un altro miscuglio esplosivo e instabile di notizie, velocità, necessità, disperazione, spesso pagato meno di dieci litri di carburante. Ma questa combustione è il miracolo che si compie ogni giorno, la scintilla dell’informazione dura poco ed è bella, l’energia che produce ha alimentato e alimenta ogni mia giornata da dodici anni.

Il giornale è il calabrone che ignaro di tutto – o forse a dispetto di tutti – vola.

Capisci quindi che non è una tragedia, se per qualche motivo non vola più. Non sembrava eterno quando iniziò. Però è stato brutto quando se finì.
Mettici anche che il giornalista è l’unico professionista al mondo cui si chiede di risolvere anche i problemi del suo datore di lavoro. Sulla crisi dell’editoria il cronista si arrovella, più che il metalmeccanico sulla crisi dell’auto o il camallo su quella dei container. Forse ci si illude che il miscuglio di parole, il quotidiano gioco di carta possa sciogliere nodi o piallare vertenze.
Non è così, e l’avevo capito qualche anno fa, stavolta mi è stato chiaramente ribadito dai fatti, da quel muro a cento chilometri all’ora che abbiamo impattato in centoventisette, penso si tratti della più grave crisi dell’editoria italiana  da dieci anni a questa parte.

Eppure dopo il rompete le righe c’è stata una serata bella come è bello uscire da un cunicolo. Una piazza romana poco illuminata, il rumore dei ristoranti. C’eravamo noi, gli sconfitti a prescindere, quelli che il giornale l’hanno solo scritto, con i nostri dieci dialetti e un mestiere da amico fragile.
Ci sarà – perchè ci sarà – una soluzione. Non sarà indolore. Ci saranno iniziative, solidarietà e prese di posizione com’è già accaduto. Ma soltanto chi è stato a quel desk, chi ha vomitato paginate tra le quattro mura di casa, i pannolini dei figli, il ragù della domenica, i ventilatori scassati e  gli appunti dispersi ma-ti-giuro-che-erano-qui, ha potuto capire come stava morendo la grande scommessa di mettere in rete centinaia di giornalisti e cercare di cavarne ogni giorno qualcosa di buono. Alla fine il gioco del giornalista telelavoratore si è smantellato, ma più per incuria che per altro. Quel bellissimo bonsai è stato trattato come una gramigna qualunque. Chissà se e  quando sapremo chi in E Polis ha falciato il grano e lasciato le erbacce.