Ho preso lo scritto che segue dai testi della Fondazione, a lui intitolata liberamente consultabili.
Togli la data, cambia i nomi delle piazze e i popoli oppressi. Cambia i nomi dei movimenti, delle fabbriche chiuse e i luoghi dei disastri ambientali: sembra scritto stamattina, pronto per andare in stampa.
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Solidarietà: “i care”, me ne importa, come c’era scritto sulla parete della Scuola di Barbiana.15.10.1992, PER ARMADILLA 1993La solidarietà gridata fa il tifo per l’Intifada, gli studenti della Tien-An-Men, i popoli indigeni minacciati. Si scalda per gli eroi ed i martiri, ed ha un gran consumo di parole, di chilometri e di bandiere. E’ corta di memoria, e qualche volta si meraviglia che i beneficiari del nostro tifo risultino poi così diversi da come li avevamo dipinti.
Oggi è possibile qualcosa di meglio e di più: non aggravare il nostro debito che va a carico degli altri – dei poveri, dei popoli lontani, della natura, dei posteri; cominciare a restituire il maltolto. Sporcare e sprecare meno, scegliere comportamenti e consumi equi e compatibili con la fratellanza umana e l’integrità della biosfera. Fare gli indigeni da noi: i “custodi della (nostra) terra”. E costruire patti concreti e reciproci con alcuni di quelli con i quali solidarizziamo. Possibilmente dal vero, senza gridarlo, senza semplificazioni: con il Sud e con l’Est, con croati e con serbi, con abitanti di periferia e con immigrati, con i licenziati della Farmoplant e con gli abitanti inquinati di Carrara.
Le scorciatoie sloganistiche aiutano a contarsi, non a cambiare persone e circostanze. I patti reciproci aiutano a fare i conti gli uni con le esigenze degli altri, visto che alla fine nessun altruismo regge davvero alla prova del tempo e dell’usura.
Non gridare non vuol dire rinunciare a spiegare e diffondere scelte solidali; serve per convincere invece che mettere solo a verbale.