L’ultima voce era di quelle a intermittenza, di quando sei su un treno e tra le gallerie va e viene la comunicazione. Si parlava di giornate di corta. Solitamente i miei ricordi sono molto confusi, voglio io che lo siano. Come la vita, in maniera tale che poi un bel giorno, rimettendoli a posto, salta fuori un inedito.
Quando accade sorrido da solo, chi guarda si chiede cosa cavolo mai stia pensando.
Ce n’è un altro, bellissimo, un cronista può capire cosa significhi: ero a Gerusalemme, un paio d’ore prima avevo mandato un pezzo, di ritorno da Ramallah. Io non sono certo un inviato, figuriamoci. Ma una cosa l’ho capita: quando affidi i pezzi ad un altro redattore devi pregare che sia più intelligente di te, che riesca a snidare le cavolate presenti in ogni grappolo di frasi, in ogni catena di pensieri. Ricordo la telefonata: «Pezzo bello, l’ho passato io, mi è davvero piaciuto». Sollievo. Ah, e poi quando giravamo “Cronisti di strada” quell’amena discussione sui rifiuti ripresa con le telecamere. Non la vorrò rivedere mai.
Chissà che ne penserebbe oggi, di tutto il casino napoletano, delle emergenze, delle discariche.
Quante ce ne sarebbero. Ma sono mie e di chi ne visse e ne scrisse con noi. Eduardo De Filippo, alla morte di Totò così chiuse il suo pezzo: «…e un abbraccio fraterno che nel tenerci per un attimo avvinti ci dava la certezza di sentire reciprocamente un contatto di razza. E le quattro chiacchiere, quelle riguardavano noi due, le abbiamo fatte ancora per anni, fino a pochi giorni fa». Ecco, è così anche per me.
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Quando accadde, volli io scrivere il pezzo del funerale. Non è il commiato: quello è l’articolo che un giornale mette in pagina quando muore un collega. Solitamente, se il collega è un vecchio signore in pensione, uscito un decennio prima dalla redazione, lo scrive il vecchio compagno di penna, quello dei vecchi tempi in cui, altrimenti lo scrive uno dei “capi”. A noi era diverso: si doveva scrivere di un trentatreenne sposato da poco e con l’idea di diventare, sei mesi dopo, un papà, lasciato morire in ospedale con un infarto non diagnosticato.
Io scrissi, invece, il funerale: cronaca e si trattò solo di non vomitare rabbia cieca e di farsi venire una decente idea per chiudere degnamente il pezzo. Lo so, lo so: può sembrare assolutamente fuori luogo pensarci. Ma solo se non sei un giornalista. Ne uscì una chiusa col “Compianto per Ignacio Sánchez Mejías” di Garcia Lorca e non perché scritto dal Poeta per l’amico torero (Passerà molto tempo prima che nasca/semmai nascerà) ma perché quegli stessi versi li riportò Giuseppe Ayala ricordando Giovanni Falcone. Allora altro che Napolipiù: avrei voluto avere gli obituaries del New York Times per rendegli giustizia.
Ma ora, a tre anni dai fatti, spero di cuore che ad Alberto Marzaioli, morto il 20 febbraio 2006 lasciando un dolore fisso – che sotto la coltre di polvere del tempo resta uguale a se stesso – una minima parte di giustizia la dia chi da tre anni ha l’onere di accertare le responsabilità penali che determinarono la sua morte.
Poi mi piacerebbe vederlo ricordato in quanto giornalista di rare capacità e disponibilità. Ricordato, sì, ma da altri: io conservo tutti i miei ricordi più belli per raccontare un giorno alla bimba, che nacque sei mesi dopo, chi era il suo straordinario papà.