In the morning you always come back

Stanotte ho sognato che eravamo con Peppe e Arnaldo, nello stesso modo in cui eravamo seduti alle scrivanie. Ero col mio camice da chimico e dovevamo fare il vino con delle macchine enormi, sembravano computer. Salivo io su quelle macchine gigantesche con la scala, mi arrampicavo e poi facevo le capriole. Una sola volta ho fatto così, quando ero tipo un dodicenne e mi misero nell’ora di ginnastica sul quadro svedese, a me che soffro anche dieci metri d’altezza.

Dice che quando sogni e non vuoi dimenticare subito, quando ti svegli non devi passarti le mani nei capelli.

Alla fine, dico alla fine del sogno, il vino non c’era ce ne scappavamo. Con noi via via si aggiungevano gli altri amici nuovi che ho conosciuto nel corso di questi anni, c’erano quelli coi quali ho litigato e poi mi sono riappacificato  quelli con cui farò pace, lo so. In fondo c’eri tu e come nei film ci hai guardati da giù e non ti muovevi, perchè tu non sei più tra noi. E sono cinque anni, la data secca rende il dolore duro e inanimato come un diamante di millemila carati, luccicoso e perfetto come il taglio di un laser. Dovevo scriverlo, ho fatto bene a scriverlo, mi dico, mentre ora nella pagina bianca mi interrogo se faccio bene a condividere ancora un dolore così privato e intatto. Non riusciremo mai più a parlare e forse il sogno è un modo. O forse è che ci penso ma non ne parlo, quindi il sogno è uno sfogo. O ancora: forse è che ne devo scrivere e lasciarne testimonianza. C’è chi fa finta di dimenticare, chi sceglie di non ricordare o chi come me, si ferma e cristallizza.
Quel giorno pure pioveva, mi pare.

Alberto Marzaioli, per non dimenticare

Alberto Marzaioli era un giornalista, era mio amico ed era una persona eccezionale. Quando è morto  si era appena sposato, la moglie aspettava una bambina, erano felici.
L’ho visto l’ultima volta in redazione col sorriso e un mal di schiena. Ci ho parlato l’ultima volta al cellulare e mi aveva raccomandato di riposarmi. Non l’avrei mai più risentito.

Una condanna di un anno non è niente, un risarcimento non è niente; il dolore è intatto, come fosse ieri. Ma la notizia c’è e noi diamo notizie.

NAPOLI, 25 MAG – Sono stati condannati ad un anno di reclusione, ed al pagamento di una provvisionale di 50mila euro, con l’accusa di omicidio colposo, il medico e l’internista che il 19 febbraio del 2006 visitarono e dimisero Alberto Marzaioli, il giornalista del quotidiano ‘”Napolipiù”, morto il giorno dopo per un infarto acuto al miocardio.   Secondo il giudice monocratico della sezione distaccata di Marcianise (Caserta), del Tribunale di Santa Maria Capuavetere, i due, D.F., medico del Saut che per primo visitò Marzaioli, e G.G., internista e caporeparto del pronto soccorso dell’ospedale civile di Maddaloni (Caserta), dove il giornalista si recò con forti dolori al torace, hanno agito “con imprudenza, negligenza ed imperizia”.   In particolare, secondo quanto si legge nella sentenza, il medico e l’internista “non hanno inquadrato la sintomatologia, non hanno effettuato una diagnosi differenziale, e non hanno applicato le linee guida dei casi di dolori toracici”. G.G., inoltre, avrebbe anche omesso di scrivere una diagnosi nel referto di dimissioni, dove ha indicato la sola sintomatologia accusata da Marzaioli.  Nel corso del processo, iniziato nel gennaio del 2007, i quattro periti nominati dal tribunale e dagli avvocati delle difese, hanno accertato che se Marzaioli fosse stato sottoposto tempestivamente ad un intervento di angioplastica per rimuovere il trombo che ostruiva una delle coronarie, si sarebbe potuto salvare.

With a little help from my friends. In ricordo di Alberto

L’ultima voce era di quelle a intermittenza, di quando sei su un treno e tra le gallerie va e viene la comunicazione. Si parlava di giornate di corta. Solitamente i miei ricordi sono molto confusi, voglio io che lo siano. Come la vita, in maniera tale che poi un bel giorno, rimettendoli a posto, salta fuori un inedito.
Quando accade sorrido da solo, chi guarda si chiede cosa cavolo mai stia pensando.

Ce n’è un altro, bellissimo, un cronista può capire cosa significhi: ero a Gerusalemme, un paio d’ore prima avevo mandato un pezzo, di ritorno da Ramallah. Io non sono certo un inviato, figuriamoci. Ma una cosa l’ho capita: quando affidi i pezzi ad un altro redattore devi pregare che sia più intelligente di te, che riesca a snidare le cavolate presenti in ogni grappolo di frasi, in ogni catena di pensieri. Ricordo la telefonata: «Pezzo bello, l’ho passato io, mi è davvero piaciuto». Sollievo. Ah, e poi quando giravamo “Cronisti di strada” quell’amena discussione sui rifiuti ripresa con le telecamere. Non la vorrò rivedere mai.
Chissà che ne penserebbe oggi, di tutto il casino  napoletano, delle emergenze, delle discariche.

Quante ce ne sarebbero. Ma sono mie e di chi ne visse e ne scrisse con noi.  Eduardo De Filippo, alla morte di Totò così chiuse il suo pezzo: «…e un abbraccio fraterno che nel tenerci per un attimo avvinti ci dava la certezza di sentire reciprocamente un contatto di razza. E le quattro chiacchiere, quelle riguardavano noi due, le abbiamo fatte ancora per anni, fino a pochi giorni fa». Ecco, è così anche per me.

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Quando accadde, volli io scrivere il pezzo del funerale. Non è il commiato: quello  è l’articolo che un giornale mette in pagina quando muore un collega. Solitamente, se il collega è un vecchio signore in pensione,  uscito un decennio prima dalla redazione, lo scrive il vecchio compagno di penna, quello dei vecchi tempi in cui, altrimenti lo scrive uno dei “capi”.  A noi era diverso: si doveva scrivere di un trentatreenne sposato da poco e con l’idea di diventare, sei mesi dopo, un papà, lasciato morire in ospedale con un infarto non diagnosticato.

Io scrissi, invece, il funerale: cronaca e si trattò solo di non vomitare rabbia cieca e di farsi venire una decente idea per chiudere degnamente il pezzo.  Lo so, lo so: può sembrare assolutamente fuori luogo pensarci. Ma solo se non sei un giornalista. Ne uscì una chiusa col “Compianto per Ignacio Sánchez Mejías” di Garcia Lorca e non perché scritto dal Poeta per l’amico torero (Passerà molto tempo prima che nasca/semmai nascerà) ma perché quegli stessi versi li riportò Giuseppe Ayala ricordando Giovanni Falcone. Allora altro che Napolipiù: avrei voluto avere gli obituaries del New York Times per rendegli giustizia.
Ma ora, a tre anni dai fatti, spero di cuore che ad Alberto  Marzaioli, morto il 20 febbraio 2006 lasciando un dolore fisso  – che sotto la coltre di polvere del tempo resta uguale a se stesso – una minima parte di giustizia la dia chi da tre anni ha l’onere di accertare le responsabilità penali che determinarono la sua morte.
Poi mi piacerebbe vederlo ricordato in quanto giornalista di rare capacità e disponibilità. Ricordato, sì, ma da altri: io conservo tutti i miei ricordi più belli per raccontare  un giorno alla bimba, che nacque sei mesi dopo, chi era il suo straordinario papà.