Per amore, non solo per amore. Una storia semplice

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Quando ho iniziato mi sono trovato a lavorare alla rassegna stampa. Che cos’è, o meglio, cos’era? Si trattava di andare alle 6 di mattina in un ufficio, in un sottoscala, recensire gli articoli secondo le disposizioni dell’azienda (sei Enel? Ti servono articoli che parlino di Enel, elettricità, Borsa, di un gatto sul palo della rete elettrica…); mettevo una X sul pezzo, poi lo tagliavo e lo incollavo su un foglio bianco. Sul foglio, il timbro con la data del giorno. E poi via, in fotocopiatrice. Il problema era quando c’era che so, una notizia d’apertura o una di centro con un titolo più lungo del mio misero foglio A4. E allora bisognava ridurre il titolo in fotocopiatrice e poi, colla Uhu alla mano, prodursi in un attento collage.
Finito questo, si fotocopiava il tutto per x copie (entro le 7.30) e poi imbustato, si mandava ai vari clienti. Da alcuni ci andavo io a piedi. Vabbè, la storia da Oliver Twist mi è venuta in mente sfogliando un comodo pdf con una rassegna stampa. Sono stato tra i fortunati che a Napoli ha imparato per primo questo metodo “informatico” per redigere una rassegna.

Mi viene in mente solo ora che l’incredibile voglia di costruire qualcosa non mi è mai passata. Eppure non ho fatto granchè, dico non ho creato granchè con le mie mani. Dovrei farlo e non è escluso che accada, prima o poi. Nel frattempo,  così come a Napoli si portano le auto nuove al Volto Santo per la benedizione, io pubblico per l’ennesima volta questo scritto di Gianni Riotta, “Per amore non solo per amore”.

Per amore non solo per amore – Gianni Riotta  Effe – 1997

Per scrivere all’alba su una vecchia macchina da scrivere, bisogna appoggiare l’Olivetti su un cuscino: così il ticchettare dei tasti non sveglierà nessuno dalla cucina. Il lapis non è veloce come  a biro, ma raccoglie bene impressioni, appunti. Le note scritte con il lapis si mantengono a lungo, ma a distanza di anni assumono un contorno sfocato, come i ricordi.
Dettare direttamente dentro un piccolo registratore va bene per appuntamenti, ma lo scrittura che ne risulta è troppo “choppy”, spezzatino. 

Si può scrivere sui sacchetti distribuiti negli aeroplani in caso di vomito da mal d’aria. Ma sono incerati, i pennarelli scivolano. Ci vuole una biro, che scava un graffito nella carta grassa. I quaderni a quadretti confondono. La carta riciclata è pura, ma la penna scorre male e il grigiore da stracci intristisce. Non ho mai saputo scrivere sui block notes gialli, carissimi
agli americani. Per 99 centesimi (1500 lire) vendono a New York dei minuscoli quaderni con la copertina grigia e bianca, che le tasche ingoiano senza sformarsi. Nel bel mezzo di un party, potete tirarli fuori, nasconderli nel palmo della mano e scrivere. Scrivere sui libri è utile, le note restano lì e le successive letture vi testimoniano di quando eravate
più giovani del Principe Andrej, al primo incontro con Guerra e pace, della felice stagione di quando leggevate da coetanei del principe e dell’ultima, recente lettura, in età da poter essere padri dell’eroe di Tolstoj. In treno si scrive bene, in auto no. Di ritorno dal funerale di Grazia Cherchi, sepolta in un piccolo e bellissimo cimitero nei pressi di Piacenza, ho scritto a getto una recensione, perché ero in ritardo col giornale e per non pensare. Un ricordo livido.


Seguendo la finale dell’America’s Cup, con il Moro di Venezia di Raul Gardini prima barca italiana, un amico velista mi convinse a portare il computer e a scrivere in mare. Le righe mi ballavano sotto gli occhi per le onde lunghe, mandai il pezzo a Milano e mi scusai verdastro precipitandomi verso il bugliolo sottocoperta. Dopo la vittoria, chiesi a Gardini se quella
fosse la sua rivincita. Guardava con gli occhi fissi, la camicia bianca aperta, gettava cicche nell’oceano Pacifico. Nemmeno un anno dopo si sparò. Ho scritto su un aereo in volo da Kiev, tenendo piedi su una gabbia con i polli. Da una terrazza caraibica tempestata di colpi d’arma da fuoco in una bella giornata, durante un colpo di stato estivo a Trinidad. Finito
scrivere, attraversato un bosco di palme per trasmettere le righe, tra posti di blocco coi machete (“Schillaci? Italiano calcio? Passare”), precaria telefonata a Milano. “Ma che ci fai ancora là? Torna, non lo sai? Saddam ha invaso il Kuwait”. Ho scritto per pagare l’affitto, per convincere mia moglie, per farmi perdonare da mia madre, per ricordare un’amica che aveva
infilato la testa nel forno. Non c’è giornata della mia vita, credo, in cui non abbia impugnato una penna, pestato sulla Valentina Olivetti rossa o usato un computer, dischetti grandi, piccoli, disco rigido. Ho scritto per Internet, sulla rivista Golem e ho scritto libri. Quando mi capitò di pubblicare il primo, lessi delle recensioni, tutte buone per fortuna e generosità dei critici, che spiegavano come una scrittura, quella dei giornali, si distinguesse dall’altra, la narrativa. Poi ho scritto scalette per un programma Tv che una sera visto da un italiano su tre. Gente laureata numismatica bizantina e analfabeti. Componevamo frasi che dovevano parlare a tutti. A scrivere si impara. Si impara leggendo gli altri scrittori e le altre scrittrici. Amandoli e detestandoli. Poi non si legge più per imparare (“che disgusto uno scrittore  che legge, come un cuoco che mangia”) ma per capire. E allora si impara da una battuta al cinema, dai pensieri che ti passano in testa quando rifletti se quel coltello che ti hanno puntato addosso veramente scannerà o no.

Viene il giorno in cui devi prendere una decisione qualunque della tua vita, e ti accorgi che non sai prenderla se non scrivendo.

Peppuccio Tornatore mi raccontò una volta che quando scrive la sceneggiatura di un film, davanti qualunque problema della vita pensa: “Come lo affronterebbero i miei personaggi? Che farebbero?”. Così riscrivo i libri degli altri. Guerra e pace adesso lo finisco quando il principe Andrej, ferito a morte, reincontra Natascia. La sua agonia e il matrimonio con Pierre li salto. E nel Grande Gatsby mi fermo a pagina 162, l’addio tra Nick e Jay Gatsby, prima della morte del gangster gentile. Spero che i due amici se la battano insieme, che la vita fortissima dei Pierre e dei Tom sia vinta, nel mio saltare pagine, dalla bellezza e dalla dignità di Andrej e Gatsby.

Graham Greene diceva di scrivere cinquanta righe al giorno, non importa  quanto stanchi, indaffarati, a pezzi, delusi, ubriachi, indebitati. Cinquanta righe, il colonnino di un  giornale, tremila colpi soffici sulla tastiera Ibm, tremila bastonate sullavecchia Olivetti, tre pagine di quaderno. Un libro all’anno. Da noi invece la tradizione crociana insegna che scrivere è attività del Genio. E il Genio, insegna Wittgenstein, è come Beethoven che scriveva musica senza bere né mangiare, senza lavarsi, sporco, grattandosi le croste e insanguinandosi la faccia, aprendo la porta alla padrona di casa spaventata per l’assenza, ormai stravolto, ridotto un  mostro. “Ecco il Genio!”. Forse. Per me il genio è un signore o una signora che si alzano al mattino, preparano la  colazione ai familiari, portano il bambino a scuola o telefonano ai figli, pagano le tasse, leggono il giornale, si indignano per un fatto lontano da loro, poi scrivono, senza drammi da genio, ma col coraggio di faticare da esseri umani. Capite? C’è una vecchia poesia latinoamericana, pubblicata tanti anni fa, la cito a memoria: quando ho saputo che mi avevi tradito con un altro mi sono precipitato a casa a  scrivere questo articolo contro il governo per cui, adesso, mi trovo in galera. L’amore e la politica sarebbe niente, se non attivate dalla scrittura. Tradito, l’amante non prende la pistola né la spada. Scrive. E per riconquistare l’amante, attacca il governo e va in cella, per amore e per dovere. La scrittura è questo, un dovere e un amore. Senza il dovere,
troverete sempre altro da fare, qualcosa di più gratificante e facile. Ci  sono tanti libri, anche classici, scritti senza dovere. Sono libri smidollati, pagine di narcisismo, che tolgono al lettore, anziché dare, che smuovono verso l’ansia, l’invidia. Ci sono anche tanti libri senza amore: magari vengono adottati nelle scuole, magari sono magnifici, ma il solo dovere, la sola maestria, la mancanza di speranza nel lettore, di amore,  sciupano la bravura, svaporano il genio. Amore e dovere sono roba faticosa. Scrivere è niente, è pensare che le proprie pagine vengano lette, continuino  nella testa dei lettori, a pesare.

Qualche anno fa morì Davide Visani, un signore che non ho mai conosciuto. Di mestiere faceva il parlamentare e toccò ad Achille Occhetto pronunciare l’orazione funebre. Visani era  giovane, in gamba e un cancro lo aveva travolto in fretta. Sul suo capezzale Occhetto trovò un mio libro, con frasi sottolineate e lo citò nel discorso. Visani nelle ore estreme, aveva cercato risposta ai dubbi e all’angoscia,  leggendo qualcosa che io avevo scritto. E dove? In aereo, in cucina, sul retro di una busta? Quando un mio amico mi raccontò della vicenda, rimasi senza fiato. Io avevo scritto per piacere, per ambizione, per un contratto, per pagare l’affitto, per reggere alle mie angosce e quelle pagine lontane erano state chiamate a quella prova micidiale. Avevano retto? O avevano  tradito quel lettore così generoso?

Mestiere complicato. Alla lunga capite che ogni parola conta, ognuna verrà letta e vi verrà rinfacciata, magari  venti, trent’anni dopo. Mi ricordo che un’estate, da bambino, vidi sul muro di una parrocchia, l’appunto di un prete che si apprestava a dire messa. Fuori c’era un gran caldo e un gran sole, in chiesa era fresco, poca gente, tutti al mare o a casa. Il prete era giovane, simpatico e sfortunato. L’ appunto che teneva sotto gli occhi diceva: “Ricordati di celebrare ogni  messa come se fosse la tua prima e la tua ultima”. Mi viene in mente adesso che dovrei attaccare al video dell’Ibm, ai sacchetti per il vomito, ai quaderni a righe, la stessa frase: “Ricordati di scrivere ogni riga come se  fosse la tua prima e la tua ultima”, come se dovesse dare conforto a chi nasce e a chi muore.

Roberto Saviano consulente di Bassolino?

La fonte è l’agenzia Ansa
«L’iniziativa dell’assessore campano all’istruzione, formazione e lavoro, Corrado Gabriele, per un emendamento alla legge finanziaria che istituisca un alto coordinamento interregionale per le politiche di educazione alla legalità, in accordo con i rappresentanti delle Regioni Puglia, Calabria e Sicilia, trova sostegno da parte dello scrittore Roberto Saviano, autore del libro “Gomorra” il quale ha accettato la proposta di Gabriele di affidargli la direzione del coordinamento. “Affideremo ad una figura di prestigio la guida del coordinamento”, aveva detto Gabriele ad inizio settimana, presentando l’emendamento al capogruppo di Rifondazione al Senato, Giovanni Russo Spena ed oggi è arrivata la conferma del nome di Roberto Saviano».

Chiedersi se sia giusto o meno, accettare un incarico simile è piuttosto inutile. Però mi rassicura: significa che c’è continuità con quella che è la storia dell’anticamorra in Campania.

Update: gli amici di Saviano sostengono che il Nostro non abbia assolutamente accettato alcun incarico. E il Nostro ha fatto sapere che con consulenze e affini non vuol avere niente a che vedere. Qualche ben informato parla di un prossimo libro in programma per la primavera (o per l’autunno 2007)
Qui la smentita delle persone “vicine” a Saviano
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giornalisti minacciati e “consulenti”

Quando, qualche anno fa, un mio collega fu minacciato da persone che non gradivano certi suoi scritti, dopo le denunce di rito e le “solidarietà di prammatica” (ordine dei giornalisti, sindacato..) cercai di far girare il più possibile la notizia. Non per appuntare una medaglia in petto al collega e amico, ma per una regola non scritta che pretende, in questi casi, la massima pubblicità del fatto. Perchè? E’ semplice: le minacce ad un giornalista vanno subito denunciate (alla polizia e ai media) perchè nel caso in cui succeda qualcos altro, le indagini prenderanno da subito una piega precisa.
Tra i giornali che si occuparono del fatto, il supplemento campano del manifesto, Metrovie, bel giornale troppo presto accantonato per questioni economiche (l’augurio è che torni in edicola). E grazie ad alcuni amici, un collega, un mio coetaneo, scrisse addirittura una pagina. Su Forcella, sul mio collega minacciato.
Ora che quel giovane si trova a vivere una analoga situazione di tensione, la prima cosa che mi viene da dirgli è di star tranquillo perché non è solo.
Poi, però, mi vengono alcune domande. Domande da lettore operaio, direi.
1. Quali sono, esattamente, la minacce contro Roberto Saviano? Possibile che giornali come l’Espresso (con cui Saviano collabora) e Repubblica (stesso gruppo editoriale) non abbiano mai specificato che tipo di intimidazioni fossero? Non voglio pensare si tratti solo di telefoni muti e occhiatacce in salumeria. Dunque, perché non dire tutto? Anche per far capire fin dove si spinge, al giorno d’oggi, la temibile, sanguinaria e predatoria camorra del Casertano. Perché il silenzio, su questo punto?
2. Perchè giornaloni come Repubblica prima sparano – a sostegno dell’Espresso – il titolo con tanto di pezzo al vetriolo su presunte frasi offensive del sindaco di Napoli Iervolino, contro Saviano e poi non ritengono di dover spendere mezzo rigo per riportare la rabbiosa replica del primo cittadino di Napoli?
3. Da dove esce, com’è organizzata, chi ispira la valanga di messaggi di solidarietà che arriva in questi giorni a Saviano e al suo libro, pregiatissimo prodotto di una celebre casa editrice? Se è davvero ispirata dal tam tam dei blog, dagli scrittori solidali e dalla società civile, allora qualcosa sta cambiando. E Gomorra davvero sta crollando. Ma, scusate tanto, Goffredo Fofi, Umberto Eco, Loredana Lipperini, vùvùvùsosteniamosaviano.net, Fausto Bertinotti, Lucano Violante, Ds, Margherita, Udeur, ItaliadeiValori, Rifondazione comunista, assessorideputatiministri, è lecito chiedervi dove cazzo eravate quando i tanti casi Saviano si sono spenti così, tra un tavolo sulla Legalità e una promessa di “maggior attenzione alla tutela del giornalisti in Campania”?

Quante vicende, tante domande…

Quello che volevo scrivere l’ho sempre scritto.
Se ho mai avuto paura me lo chiesero i ragazzi di una scuola di Los Angeles, quando andai negli Stati Uniti. C’era stato da poco il delitto Siani, avevo una scorta ma io, ti devo essere sincero? Io per un certo periodo, te lo dico proprio senza demagogia, ho camminato con la sensazione di sentire il fischio della pallottola dietro la nuca. Ho avuto questa sensazione per diversi giorni. E quando aprivo il portone, la porta di casa, era una liberazione, non dal pensiero di poter essere ucciso, ma dal pensiero di poter essere visto morto a terra come ne avevo visti tanti io. Che mi potesse vedere mia moglie dalla finestra. Quando stavo dentro avevo chiuso, avevo sbarrato questa possibilità. D’altra parte ho sempre sostenuto una cosa, che chi si piglia paura muore due volte, muore ogni giorno.


Enzo Perez detto “zio”, decano dei cronisti napoletani
Redazione del Mattino, primavera del 1992
“L’Abusivo” – Antonio Franchini, Marsilio Editore

incipit.

anna-politkovskaia

Ebbene.
Come s’inizia un blog? Senza inconsapevolezza, dico: l’altro lo cominciai senza manco sapere cosa sarebbe diventato esattamente, era il 2002. Ora, invece qualcosa in più la so. So che si chiama giornalisticamente.
E che quest’articolo – l’ultimo – della giornalista russa Anna Politkovskaia, uccisa qualche giorno fa, è un modo per iniziare. E per non dimenticare. Quello che segue è tratto da un lungo, e bello, servizio Ansa.

«Ogni giorno arrivano sulla mia scrivania decine di fascicoli che sono copie di dossier delle persone condannate per ‘terrorismo’ o ancora sotto inchiesta. Perche’ metto le virgolette alla parola terrorismo? Perche’ la maggior parte di questa gente e’ stata nominata terrorista d’autorita’, e questa prassi ha non solo sostituito in questi anni la vera lotta al terrorismo, ma ha anche creato potenziali nuovi terroristi in cerca di vendetta”. ”Quando la procura e i tribunali funzionano non in nome della legge e della punizione dei colpevoli – prosegue Politkovskaia – ma su mandato politico, per produrre lusinghieri dossier sulla lotta al terrorismo da presentare poi al Cremlino, i fascicoli si sfornano facilmente”.
E’ una ”catena di montaggio che organizza ‘sincere’ confessioni e garantisce ottime statistiche sulla lotta al terrorismo nel Caucaso del nord” scrive la giornalista, presentando ai suoi lettori una di queste vicende, la storia di Beslan Gadaiev. L’uomo, estradato nei mesi scorsi dall’Ucraina su mandato della polizia cecena, ha scritto ad Anna una lunga lettera che la giornalista ha riportato integralmente. Gadaiev vi racconta dettagliatamente cosa gli e’ accaduto una volta arrivato al commissariato di polizia di Grozny. ”Mi hanno portato in una stanza – afferma – e mi hanno chiesto se fossi stato io a uccidere quella gente. Ho giurato di non aver mai ammazzato nessuno, ne’ russi ne’ ceceni, ma loro mi hanno detto ‘No, sappiamo che sei stato tu’. Ho provato a negare, ma hanno cominciato subito a picchiarmi. Mi hanno tempestato il viso di pugni, poi mi hanno messo le manette e mi hanno infilato fra le gambe e la catena un tubo di metallo perche’ restassi completamente immobile. Hanno sospeso quel tubo fra due mobili e mi hanno attaccato alle dita dei fili elettrici. Mi hanno torturato con le scosse, mentre continuavano a picchiarmi coi manganelli”.
”Non sopportavo piu’ il dolore – prosegue Gadaiev – ho invocato Dio e li ho pregati di smettere. Per non sentire le mie grida e le mie suppliche, mi hanno messo in testa un sacchetto di plastica nera. Non ricordo quanto e’ durata, ma ho iniziato a perdere i sensi dal dolore. Allora mi hanno tolto il sacchetto di plastica dalla testa e mi hanno chiesto se volevo confessare. Ho risposto ”Si’. Ditemi cosa devo confessare”’. Una volta interrotta la tortura, Gadaiev ha provato di nuovo a negare le accuse. Lo hanno rimesso nella posizione di prima e hanno ricominciato da capo. ”Non so quanto tempo sia durata. Ogni tanto mi buttavano addosso un secchio d’acqua perche’ non svenissi”. Alla fine ha ceduto. ”Mi hanno avato, mi hanno truccato il viso e il corpo per cancellare i segni delle torture e mi hanno portato di fronte ai giornalisti perche’ confessassi pubblicamente tre omicidi e una rapina a mano armata, minacciandomi non solo di nuove torture, ma anche di stupro. Ho dovuto acconsentire”. Beslan e’ stato costretto anche a giustificare i segni di violenza comunque visibili come le conseguenze di un tentativo di fuga. Politkovskaia ha verificato il contenuto della missiva mettendosi in contatto con l’avvocato difensore di Gadaiev, Zaur Zakriev, e con l’organizzazione umanitaria non governativa ‘Memorial’ che per prima aveva ricevuto le denunce di tortura. Le fonti hanno confermato. ”Gadaiev ora e’ ricoverato nell’ospedale del carcere numero uno di Grozny – riferisce Anna – e un certificato medico attesta i segni delle violenze subite”.

Il testo termina con una frase incompiuta: ”L’avvocato Zakriev ha presentato una denuncia formale alla procura della repubblica cecena su questa brutale violazione dei diritti umani…”. Il punto finale all’articolo lo hanno messo i killer: con due pallottole al cuore e una alla testa».