Chi si aspettava megafoni, striscioni, proteste e molotov è rimasto quantomeno deluso. Insomma, i 137 redattori del gruppo E Polis vanno in Cigs, Cassa integrazione guadagni straordinaria. Per quanto tempo, non si sa: la richiesta è per il massimo possibile, 24 mesi. C’è chi dice che durerà un mese appena, c’è chi dice che è l’ulteriore, decisivo passo verso l’inevitabile baratro del gruppo Grauso. Io so solo raccontare – male – qualche sensazione. Ieri al Ministero del Lavoro eravamo pochi intimi: le parti (azienda, direzione, cdr, Fieg, Fnsi) ed un manipolo di redattori che hanno deciso di guardare in faccia questo mostro chiamato concertazione. Abituato alle mazzate e alle bestemmie dei disoccupati organizzati sotto i palazzi del potere, posso ora ben dire che di epico il 1 agosto, a via Fornovo – Roma, non c’è un cazzo. Ci sono delle stanzulelle, una tenue aria condizionata e due distributori di snack e bevande. Tutt’intorno si decide il futuro di 130 e più vite. Ancora una volta mi trovo a verificare che il telelavoro dai mille pregi, ha però pressochè annullato la componente umana, la prossemica e la cinesica delle relazioni lavorative. Non è la stessa cosa leggere due righe su skype o sulla mail aziendale e parlare con un collega di Genova, Milano, Roma, Cagliari o di qualsiasi altra città. Confrontarsi è crescere. Sempre.
Checchè se ne dica, si è chiuso un libro: E Polis, semmai tornerà a sfornare quotidiani free press (anzi free and pay) non sarà più la stessa, dopo questa crisi ed i conseguenti paracaduti sociali. Paracaduti che per qualcuno partono da 50 metri, per altri da 10 metri, per altri ancora da 5 metri. Ma non mi soffermerò sulle questioni sindacal-contrattuali: non ne ho francamente la voglia. Ho visto prima di noi sfilare gli amministratori di Unità e Secolo XIX, altre testate con vertenze di cassaintegrazione. Ne risulta un quado sconfortante, un’estate calda per tutti, ancor più per i giornalisti E Polis, vil razza dannata, dimenticata da istituzioni, dai “grandi” mass media, anche da qualcuno che avrebbe dovuto fare il suo dovere di supporto e controllo e non l’ha fatto. Al piano Vertenze del Ministero del Lavoro, però, non c’è spazio per ragionamenti sul futuro dell’informazione libera ed indipendente. Si contano matricole dipendenti, si vagliano piani di crisi e si decide di conseguenza. E intanto un giornale muore; giuro che non mi dispiace per me tanto quanto per chi ha famiglia e si porta addosso ora – assieme all’incertezza insita in questo cazzo di mestiere – anche quella di un paracadute sociale che un giorno, bene o male, finirà.
Per il resto, meglio smetterla qui per evitare di sconfinare la sottile linea che separa la malinconia dal patetismo. Di cose da fare, del resto, ne ho una marea e mai come ora – nonostante la promessa sbandierata ai quattro venti di staccare la spina per un poco – devo immergermi nei progetti finora lasciati nei cassetti, ormai stracolmi di tutto.
E tanto per prendere a prestito le parole del maestro Michele Santoro al termine della straordinaria stagione di Samarcanda: forse un giorno qualcuno dirà “C’era una volta E Polis”. E risponderò: Sai, l’ho scritto anch’io.