«Figlio mio, c’è pernacchio e pernacchio… Anzi, vi posso dire che il vero pernacchio non esiste più. Quello attuale, corrente… quello si chiama pernacchia. Sì, ma è una cosa volgare… brutta! Il pernacchio classico è un’arte. […] Il pernacchio può essere di due specie: di testa e di petto. Nel caso nostro, li dobbiamo fondere: deve essere di testa e di petto, cioè di cervello e passione. Insomma, ‘o pernacchio che facciamo a questo signore deve significare: tu sì ‘a schifezza ‘ra schifezza ‘ra schifezza ‘ra schifezza ‘e l’uommn. Mi spiego?»
Eduardo De Filippo in “Don Ersilio Miccio” da “L’oro di Napoli”
Ogni anno arriva la classifica della qualità della vita. Io concordo sul fatto che Napoli sia agli ultimi posti: vivere qui non è agevole né facile.
Però riporto volentieri il pensiero, bello, di Erri De Luca.
«Ignoro i criteri di valutazione ma dubito che siano adeguati allo scopo. C’è qualità di vita in una città che vive anche di notte, con bar, negozi, locali aperti e frequentati, a differenza di molte città che alle nove di sera sono deserte senza coprifuoco. Considero qualità della vita poter mangiare ovunque cose squisite e semplici a prezzi bassi, che altrove sarebbero irreali. Considero qualità della vita il mare che si aggira nella stanza del golfo tra Capri, Sorrento e Posillipo.
Considero qualità della vita il vento che spazza il golfo dai quattro punti cardinali e fa l’aria leggera. Considero qualità della vita l’eccellenza del caffè napoletano e della pizza. Considero qualità di vita la cortesia e il sorriso entrando in un negozio, la musica per strada. Considero qualità della vita la storia che affiora dappertutto. Considero qualità della vita la geografia che consola a prima vista, e considero qualità della vita l’ironia diffusa che permette di accogliere queste graduatorie con un ‘Ma faciteme ‘o piacere’. Per consiglio, nelle prossime statistiche eliminate Napoli, è troppo fuori scala, esagerata, per poterla misurare».
«….Battevo come un disperato sulla tastiera delle vecchie e mastodontiche Olivetti Studio, pagine e pagine di “orrendo delitto alla Bovisa” e “alba di sangue al Giambellino ” che i fattorini mi strappavano dalla macchina per correre giù in tipografia senza neppure lasciarmeli rileggere, perché non c’era il tempo, non c’è mai il tempo.
Mi vedevo condannato per l’eternità a produrre colonne di piombo su delitti e tamponamenti nella nebbia, inchiodato alla Olivetti Studio. Mi mancavano la stazione, la Questura, mi mancavano i paesi della cintura con gli abitanti ancora sbalorditi dall'”audace colpo” e mi mancavano persino, Dío mi perdoni, i furti di fotografie ai colleghi. Mio padre scuoteva la testa al pensiero del figlio ormai prigioniero del giornale. Mia madre cominciava a temere di avere sbagliato a farmi lavorare, perché studiavo sempre meno e ci avevo preso gusto. E il ragionier Coscia finalmente arrivò in cronaca con una scatola di legno in cui c’erano le lettere di assunzione, per tutti gli “abusivi”.
Tutti meno io. Il ragioniere distribuì le buste con aria disgustata da tanta generosità padronale, se ne andò in silenzio, e mi lasciò solo con il magone. Pochi secondi dopo Nutrizio entrò in cronaca come non faceva mai. Chiese a voce altissima: chi ha scritto oggi la notizia del delitto di piazzale Brescia? Lui, disse il Brambilla indicando me. Bravissimo, è la notizia di cronaca meglio scritta che abbia mai letto in quarant’anni di mestiere. E se ne andò.
L’avrei abbracciato. La notizia non valeva assolutamente nulla e lo sapevo. Ma avevo capito che Nutrizio, il Dio, lo Squartatore, il Re Sole in persona, si era preoccupato di me, del morale dell’ultimo fra i suoi “rematori” nel giorno della umiliazione pubblica.
Seppi più tardi che aveva cercato invano di farmi assumere ma il temibile ragionier Coscia aveva deciso che quindici bastavano, e che la sedicesima assunzione sarebbe stata, chissà perché, di troppo. Avrei voluto abbracciare Nutrizio, dirgli che avevo capito quel giorno che lui era un grande direttore perché sapeva prendersi cura anche di quelli che non contavano niente, perché mi aveva insegnato che il morale dei giornalisti conta più della loro bravura per mandare avanti l’avventura dell’informazione. Invece mormorai solo un “grazie, direttore”, e due giorni dopo tornai nel suo ufficio in penombra nell’alba delle nebbie milanesi per dirgli che me ne andavo per sempre dalla sua “Notte”.
Nutrizio è morto nel 1988 e si è portato via il rimorso di un suo cronista che non trovò mai il tempo di ringraziarlo».
Corteo di scooter che corre facendo un casino della madonna chissà dove e perché. La cocaina è arrivata: sparano le botte nel vicolo. Qui a fianco un tizio urla al cellulare con la fidanzata, in perfetto italiano la chiama «Grande, immensa cessa». L’odore dei cornetti di notte si insinua fin su al quarto piano. La puttana cinese ha appena ricevuto un cliente. La ragazza al secondo piano è affacciata come me e non prende sonno per via del caldo. Perché fa caldo, però è tutto un brulicare di personaggi. Sono le 23.30 circa e questa parte di città non si ferma, non dorme mai.
Se andate di fretta qui c’è la storia breve. Parla di Elezioni Ordine dei giornalisti 2013
Bisogna imparare la lezione da qualsiasi parte arrivi. In questi mesi stiamo sentendo parlare esclusivamente di elezioni. Ce n’è una che mi interessa personalmente, è quella per il rinnovo dell’Ordine dei giornalisti. Sono tre anni che col Coordinamento dei giornalisti precari Campania portiamo avanti un progetto. Un tentativo di disambiguazione: spieghiamo alle persone che il giornalista non è una casta. Che oggi, anno 2013, fra giornalista precario e operatore di call center precario non v’è alcuna differenza. Abbiamo fatto assemblee, riunioni, abbiamo parlato da palchi sindacali, abbiamo perfino fatto irruzione in alcuni convegni, abbiamo contestato, abbiamo tenuto il megafono in mano e gli striscioni. Nessuno di noi gioca alla rivoluzione: non c’è tempo, non c’è più tempo per giocare. Strappiamo i momenti necessari all’organizzazione di questo movimento alla vita privata, al sonno. Abbiamo rimesso al centro della discussione, in Campania, la questione dei precari. Per questo io vi dico, cari 25 lettori di questo blog, che mi candido alle Elezioni Ordine dei Giornalisti 2013, come consigliere nazionale in Campania. Con me in questa battaglia ci sono altri amici e colleghi: troverete i loro nomi in calce e a questo link.
Se avete due minuti in più, questa è la storia lunga (parla sempre di Elezioni Ordine dei giornalisti 2013)
Sono fortunato. Me lo dico nonostante le strade piene di munnezza, il degrado che in alcune zone di Napoli ti «zompa ‘nfaccia». Nonostante veda i miei amici piano piano andare tutti via per lavoro: Roma, Milano, Irlanda, Francia, Inghilterra, Belgio, Stati Uniti. Uno dei pochi pensieri che mi ferisce è sapere che non potremo mai più incontrarci tutti insieme come un tempo. Ma ripeto: sono fortunato. Siamo tutti fortunati. Siamo nella merda – che notoriamente puzza di merda ma partorisce fiori -. E i diamanti? Li troveremo, prima o poi? O avranno saccheggiato tutte le miniere? E quando li troveremo saremo ancora puri di cuore come ora, o avremo l’animo incupito, macchiato dalle troppe delusioni, dai tradimenti, accecato dalla rabbia e voglioso solo di cose, cose, cose? Le dannate cose che non fanno la felicità ma costruiscono un involucro felice. Per questo dico che sono fortunato: ho raggiunto questa consapevolezza. È come se a trentasei anni mi fossi operato di cataratta e vedessi tutto più chiaro. Quanto dura la vita? Settanta, ottanta, novanta, cento (io centodieci eh) anni? E qual è la differenza tra una vita consumata fra le cose e la voglia di cose e quella spesa nelle idee? «Molti Maalox in più e un fegato così», direbbero i miei amici ex comunisti ora alle prese coi guai del Pd. Io dico che è la passione. Nel senso di «amor che move il sole e l’altre stelle» ma anche nel senso etimologico del termine, di patire. Un termine che a sua volta ha molto a che fare con la simpatia. E non siamo davvero pieni di patimenti e di passioni, noi, di questa generazione? È pur vero che ci indigniamo per due clic su Facebook ma è altrettanto vero che scriviamo tanto, tantissimo. E che chi fra di noi riesce a dare il giusto senso e il giusto peso alle sue parole riesce a veicolare e molto facilmente le sue idee ad un grandissimo numero di persone: una cosa mai vista fino ad ora. Abbiamo enormi possibilità di cambiare le cose, abbiamo enorme necessità di farlo: siamo un poco più lenti dei nostri predecessori. Non viviamo tra le macerie di una guerra ma camminiamo tra palazzi pericolanti: non possiamo sapere quale ci crollerà addosso; dobbiamo stare attenti. E siamo giovani, anche il più vecchio di noi è giovane. Se l’è conservata, la sua giovinezza, non consumata tra gli atti di violenza che hanno caratterizzato le generazioni precedenti, incupiti e più disillusi dei nostri padri e dei nostri nonni (dei quali conserviamo l’attitudine pericolosa ad amare l’uomo solo al comando) ma al tempo stesso con la grandissima possibilità di studiare le carte, i fatti, i nomi, le circostanze. Riusciamo a dare un senso e un nome a ciò che vogliamo.
Detta così, sembra davvero che grandi pensieri partoriscano poi piccoli atti: di tutte queste parole ciò che accade è la candidatura all’Ordine dei giornalisti? Quel luogo antico e inutile che tantissima gente – probabilmente a ragione – vorrebbe abolire? La questione è molto semplice: ad un certo punto di una battaglia bisogna far capire alla tua controparte cosa sei disposto a fare. Addirittura a scendere sul suo terreno, quello del consenso elettorale, dei signori delle tessere, del voto di scambio tale e quale a quello che quegli stessi giornalisti poi condannano dalle colonne del loro importante quotidiano. «Sconfiggere il nemico senza combattere è la massima abilità» scriveva Sun-Tzu. E invece pare che stavolta useremo un’altra tattica, quella meno antica ma comunque datata, dei disoccupati organizzati napoletani che cantavano ai politici trombati per sfotterli un coretto caustico all’ennesima potenza: «è fernuta ‘a zezzenella / sò passat ‘e tiempe belle / piglia ‘o fierr e ‘a cardarella / è ‘o mumento e faticà». Speriamo il 19 maggio prossimo di cantarla anche noi a qualcuno.