Omicidi d’essai

Il cronista si morde le mani. Il video non ha bisogno di un commento. Si vede quello che è successo, non c’è bisogno di scrivere. Eppure vuol lasciare un segno. Cosa dire?
Questa qui è la mia citta, Napoli. È Montesanto.  Montesanto è verticale: anzitutto perchè è una salita, poi perché ci sono la ferrovia cumana, la vecchia metropolitana e la funicolare.  Lì vicino c’è un negozio di fumetti che i vecchi appassionati ricordano, è quello storico, nato prima che a lui si aggiungessero librerie e mega store. Giù si sente l’odore di fritto, pizze, pizzette, misto a quello del pesce venduto sulle bancarelle, alle sirene delle ambulanze che entrano nell’ospedale Vecchio Pellegrini, al mercato della Pignasecca, ai motorini che salgono-scendono-salgono-scendono. Non per dipingerla meglio di quello che è, nè per affondare nel solito è mille culure/è mille paure ma Montesanto è stata sempre la dimostrazione che diversi pezzi della città potevano coesistere. Le vasciaiole e gli  studenti fuorisede, gli immigrati e le donne del mercato, i guaglioni dei clan della camorra (e lì ce n’è davvero tanta) e tanta gente perbene.

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Scrive Adolfo Scotto di Luzio che ad un certo punto degli anni Novanta abitare a Montesanto era diventato quasi uno status symbol. Vero, verissimo. Ricordo ancora quando andai a casa di una coppia d’amici che lì viveva, invidiatissimi da noi “figli di famiglia”. Da lì partivano le manifestazioni più toste, i concentramenti “rossi”. Poi il tempo è passato e tutto s’è diluito. Pure i rossi.
Dunque: nella strada verticale di mercati, funicolari e treni, si vede una cosa che a Napoli accade spessissimo: il clan che per ricordare a tutti di chi è il territorio (compresi rivali o aspiranti tali) spara. Spara platealmente, tutti devono sapere.
Ma non è questo che colpisce, del video. Nè il momento in cui Petru, il giovane migrante, vittima innocente uccisa da una pallottola sbatte a terra. Sono i pochi passi  (quanti saranno stati, dieci? Venti?) che lui già colpito ma ancora in piedi e sua moglie, percorrono dal marciapiede fino all’ingresso della stazione.
La prima cosa che pensi dei napoletani che erano lì, quando guardi il video e li vedi scappare come zoccole impazzite è: “Bastardi, potevate aiutarlo”. Ma poi viene anche da pensare che forse nemmeno tu l’avresti fatto. Avresti pensato ad un regolamento di conti. E che fai, aiuti un camorrista?

Il cronista bestemmia: quando è arrivata la notizia tutti hanno pensato ad un fatto di malavita. Un rom sparato che può essere? Non è un mea culpa né un’accusa. È andata così. Salvo poi capire come si erano davvero svolti i fatti. E la città? Ha capito, poi, la città, di cosa si trattava? Non sembra. C’era una manciata di persone, la settimana successiva, alla commemorazione sul luogo della tragedia. Fu uccisa allo stesso modo anche Annalisa Durante, l’angelo di Forcella, ammazzata a 14 anni, vittima innocente d’una sparatoria di camorra. Lì fu dolore collettivo. Petru invece è stata una sofferenza per parenti e per pochi napoletani sensibili.

Io li chiamo gli omicidi d’essai.

E il video scorre, è un pugno nello stomaco guardarlo fino alla fine. Marca il biglietto,  la brava gente: si apre lo sportellino e scappa via, terrorizzata. Petru e consorte no, restano lì. Per lui nessun lasciapassare; nè un biglietto di dignità da vivo; nè uno di memoria, da morto.

L’Ora dei ricordi

Il titolo è quello di un suo libro, ormai introvabile, in cui raccontava l’epopea de L’Ora, dei suoi giornalisti ammazzati dalla mafia.  Direttori di un’altra epoca, con altre schiene, ben più robuste. Peccato, non aver potuto imparare questo mestiere dalla diretta voce di Vittorio Nisticò, scomparso ieri.

Update: su Articolo 21 un bel ricordo di Alberto Spampinato.

E io ti seguo. A Fortapàsc

Ho visto “E io ti seguo” e “Fortapàsc” a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. Però prima di iniziare a parlarne, vorrei soffermarmi sulle locandine. Quella del film di Maurizio Fiume ha un inciso, che il Giancarlo Siani del suo film ripete ad un collega: «Io non voglio conoscere la verità, ma mi piacerebbe poterla scrivere». Una frase paradossale (come si può scrivere senza conoscere? È forse un accenno alla scrittura inconsapevole di fatti che portarono Siani alla morte?); una frase che però mette la scrittura al centro di tutto.  È su sfondo rosso, il Siani di “E io ti seguo” sembra una icona di Che Guevara.
La locandina del film di Marco Risi è invece diversa in tutto e per tutto. Colori di guerra – dominano i toni “militari” – e il Siani di Fortapàsc è raffigurato con la bocca  cancellata. Questa cosa mi ha molto colpito. È davvero il simbolo-bocca che con un omicidio, la camorra ha voluto cancellare. Quello che diceva, non quello che scriveva? Facile a dire “era la cosa più d’impatto”. Eh no, secondo me c’è tutta una idea.

Si potrebbe scrivere a lungo della mancata distribuzione del film di Fiume e dei problemi di finanziamento di quello di Risi; fatto sta che l’uscita di quest’ultimo ha determinato – almeno a Napoli, grazie ad un mensile,  Chiaia Magazine, che l’ha allegato all’uscita di marzo – il rilancio del primo lungometraggio sulla vita e sulla morte di Giancarlo Siani. Sono andato a vedere “Fortapàsc” col pregiudizio di chi vedeva dietro una operazione commerciale e dei “professionisti dell’antimafia”. Mi dispiace dirlo, ma questo pensavo, ora penso semplicemente che va visto, che è una pellicola assolutamente degna di esser vista. Così come bisogna però vedere “E io ti seguo”.
“Fortapàsc” restituisce una immagine sceneggiata, romanzata (il tuffo nudi dallo scoglio, certi dialoghi improbabili col capo della redazione del Mattino a  Torre Annunziata) che, associata ad una colonna sonora degna del Risi “re” degli anni Ottanta, imprimono ben bene l’immagine romantica del giovane giornalista indomito. Quello che va a bussare alla porta del villone del sindaco o che trova sotto il garage di via Morelli il pretore che gli da’ i documenti – una scena che è un chiaro omaggio a “Tutti gli uomini del presidente” -.
Napoli è ricostruita bene, però secondo me il film s’incarta quando deve spiegare cos’è successo a Giancarlo Siani. Il passaggio da Torre a Napoli e le settimane che precedettero la morte del giovane giornalista napoletano sono spiegate col timore di chi aveva paura  di toccare i tanti punti oscuri di quella vicenda (il libro-dossier di Siani;  l’agenda sparita; il ricorso ad un agente di polizia per chiedere protezione; l’ombra di strani movimenti ne “Il Mattino” di quegli anni). Manca totalmente il dopo omicidio, nel film di Risi. Cos’è successo immediatamente dopo l’omicidio ovvero la battaglia per far aprire il giornale con la notizia dell’agguato. Una vicenda – quest’ultima, insieme a tante altre – magistralmente raccontata da Antonio Franchini nel libro “L’Abusivo” edito da Marsilio e recentemente ristampato in edizione economica (peccato che con la fascetta “a questo  libro è ispirato “Fortapàsc”: in realtà “L’Abusivo” ha ispirato molto più il lavoro di Fiume). Insomma, “Fortapàsc” sembra un poco  come quei film americani che raccontano la vita di una principessa mantenendo le cose salienti ma lavorando di sottrazione. E di somiglianze: ci sono  almeno 4 attori già visti in “Gomorra” di Matteo Garrone (più il direttore della fotografia).
Però la scena finale –  totalmente inventata ma estremamente simbolica – vale da sola il prezzo del biglietto.

L’uscita di “E io ti seguo” penso sia stata l’ultima occasione in cui la consulta del sindacato dei giornalisti della Campania si sia riunita per parlare di qualcosa. E infatti si riunì per sconfessare la ricostruzione del film, assolutamente malvisto dal Mattino e dalla famiglia di Siani. In verità tutto quello che esce dal film di Maurizio Fiume, scaturisce dagli atti giudiziari – almeno a quanto mi è parso -. Dunque non capisco il perché di quest’atteggiamento, ma proprio perché non mi sono note le ragioni profonde, lo rispetto. Per me il pregio del lavoro di Fiume è stato quello di andare più a fondo sul versante della ricostruzione, non mettendo un velo sul contesto, sui documenti – le lettere di Siani ad una amica, le deposizioni dei pentiti -. Detto questo, è innegabile che il costo di produzione dei due film (5 milioniè costato quello di Risi, meno di un decimo di quello di Maurizio Fiume) traccia un solco enorme sugli attori, sulle location, sulle riprese. Però Fiume anche se è più “lento” riesce a non essere eccessivamente pesante o narrativo, lascia spazio alle immagini.
Io sono stato contento di averli visti entrambi a distanza ravvicinata, sul fronte narrativo mi sono sembrati l’uno il complementare dell’altro. Vi invito a fare altrettanto.

Le cose buone vanno avanti

Le cose buone vanno sempre avanti, il lavoro paga. Me lo ripeto come un mantra da sempre.
A proposito di cose buone: il web-cartoon’s di Raffaele Marra, “Giggino & Totore” di cui avevo parlato qualche tempo fa, approda su Eco Tv ( ore 23 Sky906).

Update del 22/3: e di questo bel pezzo (mezza pagina) del Corriere della Sera che diciamo?