Il film dei Jackal, le storie sul lavoro
e Napoli (che non perdona)
La mia collezione di sigari cubani perde un elemento ogni volta che si realizza qualcosa di nuovo a Napoli. Succede quando vedo coloro che niente fanno (e niente faranno mai) scagliarsi con ferocia personale contro una qualsivoglia cosa appena nata (associazione, libro, film, documentario, giornale) per il solo motivo che non l’hanno fatta loro.
È allora che accendo l’amato Cohiba e aspetto.
Aspetto che i feriti, fino a quel momento docili, fiduciosi e speranzosi (di critiche costruttive, di appoggio non condizionato, di oneste prese di posizione da coloro che ritenevano amici) trasfigurino come santa Teresa d’Avila e finalmente giungano sulla riva degli scettici e dei sarcastici. Io alloggio lì già da un po’.
Sono stato un po’ ermetico? Spiego meglio: semplicemente non ho capito una certa ferocia gratuita tutta di certi ambienti partenopei – non del pubblico – nei confronti di ‘Addio fottuti musi verdi’ opera prima dei The Jackal. Io l’ho visto, come me molte altre persone, mi sono divertito ma evito recensioni perché sono di parte. Tutto qui.
Detto ciò, non posso non notare il tema base della trama. Il lavoro e l’emigrazione.
Ma quanti film ambientati a Napoli negli ultimi decenni hanno il lavoro come elemento fondante? Nu cuofano!
Nanni Loy ha fondato la quasi totalità dei suoi film su giovani e meno giovani disoccupati e su coloro che per arrangiarsi finiscono in situazioni pericolose. ‘Mi manda Picone’ ma non solo: ‘Scugnizzi’ e ‘Café Express’ pure parlano di lavoro. E anche ‘Pacco, doppio pacco e contropaccotto’.
Massimo Troisi ha fatto della non-ricerca di lavoro del napoletano in viaggio («Emigrante? Nossignore io a Napoli un lavoro ce l’avevo…») un argomento portante di ‘Ricomincio da tre’ e ‘Scusate il ritardo’.
Luciano De Crescenzo (a proposito, il film di Serena Corvaglia e Antonio Napoli sulla sua vita è molto bello) in Così parlò Bellavista crea il monologo capolavoro, quello di Giorgio. Ve lo ricordate?
«Fino a ieri mi sentivo come un esemplare della specie più povera del mondo: quella del disoccupato laureato meridionale e di buona famiglia.
In altre parole, il titolo di studio mi impedisce di fare il pezzente; per inadeguata preparazione familiare non so fare lo scippatore… e non sono nemmeno capace di vestirmi da cameriere pe m’arrubbà ‘e sorde fore a ‘na trattoria». |