Diffamazione, il fallimento sindacale dello sciopero dei giornalisti

«Non bisogna mai negoziare per paura, non bisogna mai aver paura di negoziare» sosteneva John Kennedy e come dargli torto? C’è stato un anno in cui, da sindacalista, penso di aver condiviso con altri tre colleghi il record nazionale di proclamazione degli scioperi d’un giornale. Manco la Fiom. Però alcune regole le conoscevo e la conosco: non si lascia il tavolo se c’è trattativa, se si apre uno spiraglio non si proclama lo sciopero, prima di proclamare lo sciopero devi essere sicuro che la base ti segua o è un disastro.

Regole che con la vicenda dello sciopero dei giornalisti sulla diffamazione, astensione proclamata lunedì 26 e ieri sera rinviata frettolosamente, sono state ignorate. Il “differimento” dello sciopero è stato un clamoroso boomerang,  una gigantesca perdita di credibilità da parte del sindacato dei giornalisti italiani.

I motivi sono molto semplici: anzitutto questo sciopero è nato male.

Proclamato dalla giunta della Federazione nazionale della Stampa sentiti chi? I grandi gruppi editoriali, Ansa, Rcs, Espresso-Repubblica, Rai, Mediaset, Sky, La7  e via seguendo. Ignorando la platea crescente – e numericamente rilevante – che si muove sul web e non ha giornali cartacei ma rappresenta ormai il cuore pulsante di un sistema che non è più marginale come un tempo ma macina milioni di contatti e “muove” qualcosa nel panorama editoriale. Una decisione calata dall’alto, con un desueto comunicato  (“Sanzionare gli editori” è una frase da Camera del Lavoro degli anni ’70) e un errore madornale, ovvero il mancato confronto con una platea, quella dei giornalisti precari, che rappresenta la maggioranza del panorama lavorativo italiano in questo settore. La metà, se non di più.

Lo sciopero – lo facevano notare molte persone che delle dinamiche del giornalismo italiano fanno pane quotidiano, Arianna Ciccone, Mario Tedeschini-Lalli – così com’è, non è più lo strumento di lotta principale dei giornalisti. Fermare le rotative non è più possibile, fermare il web non è mai stato possibile. Per questioni di carattere generale come quella della diffamazione occorre oggettivamente trovare strumenti nuovi. Ma bisognava pensarci prima di proclamare lo sciopero al grido di «Sanzioniamoli!».

Poi che cosa è successo? Una volta arrivata la notizia dell’astensione dal lavoro, molti si sono rizelati: «Ma come,  il giorno delle primarie del centrosinistra?». E si è spaccato il fronte: “Il Giornale”, quello di Sallusti, il direttore la cui condanna al carcere ha aperto la discussione sulla legge diffamazione, ha annunciato che il suo quotidiano non avrebbe aderito allo sciopero. Per la serie, “mi si nota di più se non vado o se vado e resto in disparte”? Dunque “Giornale” – e probabilmente “Libero” –  in edicola.

Enrico Mentana direttore del Tg di La7, si è arrabbiato:

Stefano Menichini, direttore di “Europa”, ingoiava il boccone amaro scrivendo su Facebook: «Non contesto lo sciopero Fnsi. Ma il giorno dopo le primarie Europa, il giornale meno diffamatore d’Italia, sarà il giornale più penalizzato». Luca Sofri, direttore de “Il Post”, pure marcava delle distanze facendo capire che il suo giornale non avrebbe osservato 24 ore di silenzio:

Anche il gruppo Riffeser (“Quotidiano Nazionale”, “Il Resto del Carlino”, “La Nazione”, “Il Giorno”) aveva annunciato una iniziativa alternativa allo sciopero: mettere le notizie di politica in ultima pagina.

La Fieg, ovvero gli editori,  si è dichiarata favorevole alla mobilitazione ma ovviamente contraria allo sciopero. Scriveva ieri  il presidente Giulio Anselmi in una nota:

Le ragioni della protesta dei giornalisti contro una pessima legge sulla diffamazione sono comprese e condivise. Ma la Fieg ritiene improprie le modalita’ della protesta con uno sciopero che rende ancora piu’ difficile la situazione dell’informazione.

Ora vengono le dolenti e peggiori note di questa sgangherata orchestrina sindacale.

Ieri sera verso le 21 lo sciopero è saltato. La notizia l’ha data Mario Lavia, vicedirettore di Europa, sempre su twitter.

Ciò, mentre le agenzie battevano una dichiarazione del presidente del Senato Renato Schifani:

“L’eventuale rinvio della protesta potrà consentire alle organizzazioni sindacali una valutazione complessiva del testo esitato dal Senato, destinato, tra l’altro, a successiva valutazione da parte della Camera dei deputati. Tutto cio’ – conclude il presidente del Senato – costituirebbe garanzia di quel clima di coesione sociale di cui l’Italia ha bisogno.

Dopo qualche decina di lunghissimi minuti la Fnsi se n’è uscita con un comunicato , parlando di «lotta convergente tra giornalisti ed editori».

“Rispettosi della vita istituzionale del Paese, per gli stessi principi di adesione al dettato della Costituzione messi a rischio da proposte di legge devastanti, che ci costringono alla più forte protesta perché aggrediscono il diritto dei cittadini alla verità dei fatti di interesse pubblico e all’autonomia dell’informazione, accogliamo l’appello alla riflessione che arriva dalla seconda carica dello Stato. E’ un appello che, parimenti, va rivolto ai proponenti delle norme legislative in discussione in Senato. La riflessione sarà speculare a quella che avanzerà nel corso del processo legislativo. Nello stesso tempo la Fnsi rileva che, per la prima volta, la sua protesta, dopo la proclamazione di uno sciopero dei giornalisti, registra la convergenza piena della Federazione degli Editori sulle ragioni di una protesta determinata, sostenuta dai comitati di redazione, dalle associazioni regionali di stampa e da migliaia di colleghi, rendendo possibile una grande iniziativa comune per consentire a milioni di italiani di capire cosa sta accadendo, quale sia il senso di una battaglia civile per il diritto alle verità delle notizie, all’autonomia e al pluralismo dell’informazione.

Insomma, una cura peggiore del male: se proclamare lo sciopero così significava far ridere i polli, quegli stessi pennuti ora si stanno scompisciando, leggendo la precipitosa retromarcia. Una perdita di credibilità, una arroganza – nell’annunciare sciopero senza ascoltare tutti, ma proprio tutti, e un asservimento al potere politico e a quello editoriale col frettoloso dietrofront.

Sì, è proprio il perfetto specchio del giornalismo italiano e di chi lo rappresenta.

 

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