La vanità, lo sfruttamento e il demonio vestito da giornalista

Dire che Huffington Post è un giornale con le idee degli altri e a costo zero è sicuramente una forzatura. Primo perché è un aggregatore, poi perché c’è anche una truppa d’autorevoli blogger che vi contribuisce. L’unica cosa su cui potremmo esser d’accordo è il costo: al gestore costa giusto il lato tecnico, ma quello intellettuale e giornalistico è praticamente trovato per strada.

Succede che HuffPo venga acquistato dal colosso  Aol per un cifrone e vabbè. A chi vanno i soldi? All’editore, ovviamente. A chi scrive sull’Huffington Post cosa va? Tanti ringraziamenti e una promessa:

«Far from changing our editorial approach, our culture, or our mission…».

Fondamentalmente: non si cambia nulla, quindi si continua a lavorare gratis. Intascare trecento milioni di dollari e pretendere che gli altri lavorino con te a costo zero, oggi senza più nemmeno la garanzia d’indipendenza (entri in una multinazionale): ma a chi conviene? Questo però è un problema di HuffPo e Aol.

Divertente è vedere cos’è successo: i blogger che ovviamente si ribellano e non vogliono lavorare più gratis et amore dei, fanno riflettere. Provocazione: credevano di far giornalismo libero e indipendente finquando non ci si sono messi di mezzo i soldi? E che cos’è questo, se non un business? Ecco, siamo ancora all’immagine del cronista che mai deve guardare il profitto e il danaro, nemmeno da lontano. Siamo tutti gli Ed Hutchinson che dicono «è la stampa, bellezza». Poi però aggiungiamo: «Finquando non ci sono di mezzo i soldi».

R. B. Stuart ha scritto molto su HuffPo. Dopo la cessione del sito, su The Improper scrive una cosa molto dura, io la traduco alla buona, mi scuserete.

«In qualità di collaboratore di The Huffington Post dal 2008, ho pubblicato 25 articoli originali per un valore pari a circa 25.000 dollari, tutti gratis.
Volevo avere una piattaforma per le mie storie di soldati americani di ritorno dall’Iraq con il cancro, non ho chiesto il pagamento; ho semplicemente consegnato da 20 a 30 ore di lavoro per ogni pezzo, gratis
».

Poi la Stuart scrive che aveva chiesto ad Arianna Huffington più volte un sostegno finanziario (rifiutato dal Huffington Post Investigative Fund) venendo poi a sapere  che a dicembbre The Huffington Post aveva assunto via due persone del New York Times pagandoli 100.000 dollari ciascuno.

E conclude: «Pensa davvero 6.000 scrittori-schiavi continueranno a scrivere gratis per un conglomerato internazionale come AOL, che paga i suoi redattori web, anche se poco? […] È presuntuoso e arrogante a dir poco». E ci sono tante altre cose ancor più dure, in giro per la Rete. Tim Rutten sul Los Angeles Times dice che è proprio la sconfitta del giornalismo. E scrive (la traduzione è di Lsdi):
«l’ Huffington Post, è un prodigio di ingegnosità, che combina una forte padronanza editoriale con i motori di ricerca con un superlavoro che farebbe vergognare una fattoria degli anni 30. La maggior parte dei contenuti del sito vengono forniti dai commentatori, che lavorano solo per avere l’ opportunità di sostenere cause o idee a cui sono devoti. Il resto sono contenuti ‘’aggregati’’ – potremmo dire rubati – dai giornali e dai network televisivi che pagano giornalisti per raccogliere e produrre quelle notizie».

È solo questo? Buoni contro cattivi? Faremmo un torto alle nostre intelligenze. Non possiamo vederla solo così.

Frederick E. Allen su Forbes, riporta e condivide il commento di Ben Elowitz, co-fondatore e capo esecutivo della Wetpaint. Che con molto rispetto prende per i fondelli i blogger dell’Huffington.«Waving spatulas in the air, rather than guns». Poi aggiunge che sostanzialmente parlare di sfruttamento è sbagliato. Dice: una cosa è stata chiara  fin dal “get-go” del sito: la motivazione dominante del blogger che ha postato su Huffington Post è stata molto di più più fondata sul narcisismo che sull’altruismo.
Cioè: tu mandi al sito i tuoi validi contributi, il sito ti valorizza e accresce la tua autorevolezza.

Bel regalo in bella scatola, insomma.

E mi viene in mente la scena finale de “L’avvocato del diavolo” con Al Pacino e Keanu Reeves: la vanità, decisamente il mio peccato preferito, dice il demonio. Nei panni, ovviamente, d’un giornalista.

Bisognava pensarci prima, potremmo dire, volendo  forzare e trovare una morale. Ma in realtà non sono i blogger, a mio modo di vedere, il vero problema in questa storia. Lo sono i contributi aggregati: la cronaca, la notizia. Con questi, pure presi  a costo zero, prevedo che a breve la ricca Arianna, reginetta del commento e della notizia rimasticata, dovrà fare i conti. E non sarà la sola.

3 Comments

  1. prendi dagospia, in buona parte anche il suo successo è derivato da contenuti gratuiti. spesso citazioni dure e crude di altre testate. e i soldi penso li intaschi tutti sul C/c. certo non c’è ancora di mezzo il mega-compratore. ma potrebbe arrivare, è per questo che i giornali dovrebbero a mio avviso farebbero bene ad assumere persone che preservino i proprio contenuti riservati a lettori, paganti. i furbi farebbero meno strada e i contributors-giornalisti che lavorano potrebbero smettere di vivere d’aria: prrrrrrrroT.

    Saluti,

    Icgionn

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  2. praticamente il post di sofri è la stessa cosa, con la differenza che siccome siamo in italia pensano tutti che sia una figata e a come entrarci

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  3. […] This post was mentioned on Twitter by ciro pellegrino and ciro pellegrino, MYSIA. MYSIA said: RT @ciropellegrino: La vanità, lo sfruttamento e il demonio vestito da giornalista http://j.mp/gDV1PL via giornalisticamente.net […]

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