Professione giornalista. Professione?

Alberto Papuzzi ripropone il suo “Professione giornalista” uno dei migliori manuali  italiani su questo mestiere, con una nuova edizione che contiene nuove parti, fra le quali un capitolo sul giornalismo politico e uno sull’informazione online di cui La Stampa anticipa uno stralcio.
A quanto si legge, Papuzzi ha un approccio non certo entusiastico rispetto all’informazione online, parlando di “pregi e limiti”. E discutendo del  “tutti cronisti grazie al web” arriva alla cruciale domanda:

L’affermazione del giornalismo partecipativo sembra portare come conseguenza una concezione del lavoro in cui i professionisti non sono più necessari, perché nessuna testata potrebbe mai avere una copertura pari a quella del reporting diffuso e di base, con presidi sociali garantiti dalle persone che sono naturalmente presenti sui luoghi degli eventi, improvvisamente e inaspettatamente protagonisti. Ma cosa accadrebbe se questa abbondanza di informazioni non venisse selezionata, analizzata, valutata, controllata, decifrata?

La questione è però ancora più intricata: sappiamo che oggi esistono persone che – grazie alla loro presenza sui luoghi – possono assicurare reporting anche senza essere necessariamente giornalisti di mestiere. Il problema, uso le parole di Papuzzi, è se esiste davvero ancora il giornalista capace di “selezionare, analizzare, valutare, controllare e decifrare”. A mio modo di vedere è il progressivo impoverimento degli “spazi di manovra editoriali” del cronista, ad aver determinato lo svilimento del suo ruolo nella società. Poi, Papuzzi non ne parla, i teorici del giornalismo fanno fatica ad affrontare l’argomento, la questione economica fa o no la differenza? Un citizen journalist ad un certo punto mollerà la presa perché deve far altro per portare a casa la pagnotta; un giornalista professionista italiano si venderà al miglior offerente visto che la sola forza delle notizie “selezionate,analizzate, valutate” eccetera, non gli frutta il becco d’un quattrino.

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