Cosa succede in città: il futuro dei giornali italiani

Da qualche tempo, complice anche un mio maggiore interessamento alla stampa estera, leggo in tutte le salse notizie, opinioni, dati e ipotesi sul futuro dei giornali e del giornalismo. Dibattito appassionante, un poco catastrofico. Capirete, ogni blogger che scrive “i giornali stanno morendo” è una grattata di balle.
Mi sta venendo l’orchite.
La situazione non è buona, non ci voglio io per dirlo. Qualche giorno fa, parlando con un bravo collega napoletano, poliglotta, emigrato in Scozia nei tre mesi che hanno preceduto l’acme della crisi, mi ha raccontato che è entrato in un Paese e ne ha lasciato un altro. «I giornali hanno tagliato subito, iniziando dai collaboratori ma anche dai redattori ordinari. Lì c’è flessibilità ad uscire dalle aziende. Ma ce n’è anche ad entrare nel mondo del lavoro». Già.
Dunque, volendo tralasciare il New York Times cui già tutti stanno tirando i piedi, vorrei parlare del mio piccolo mondo.
Ci credereste che nel periodo di crisi più nera del giornalismo, editori e sindacato si apprestano a rinnovare il contratto di lavoro dei giornalisti, scaduto da quattro anni? Un paradosso a prima vista, in realtà sarebbe assolutamente plausibile. La crisi dei giornali in Italia, la ritrosia dei big spender della pubblicità a cacciar quattrini per finire sulla carta stampata, soprattutto sui quotidiani,  è nota anche alle creature dell’orto e del bosco.  Quindi che facciamo, tutti fagotto entro 24 ore? Direi di no, il contratto giornalistico che si andrà a firmare – rimasto fermo per anni – è ora mosso da una parolina magica: prepensionamenti.

Si tratta della possibilità, grazie ad un fondo governativo di 20 milioni di euro, di mandare a casa gente di 58-60 anni. Professionisti che in molti quotidiani e periodici hanno raggiunto gradi apicali (caporedattore, caposervizio, inviato eccetera) il cui stipendio, dunque, consentirebbe un risparmio rispetto all’assunzione che so, di un giornalista di prima nomina o di un giornalista praticante. Le pensioni dunque (almeno le prime 500) sono offerte gentilmente dallo Stato.
Cinquecento prepensionamenti. In Italia ogni 4 mesi c’è l’esame di abilitazione per i giornalisti professionisti. Ogni 4 mesi, circa 100-150 colleghi in più. Ma non divaghiamo.
Parte dei prepensionamenti son pagati, ma a questo punto sorgono due domande:

1. considerando che si va in pensione prima solo su base volontaria, è sicuro che proprio tutti vorranno andarci?
2. collegata alla 1: se non ci vanno tutti, cosa accade?

Accade che arriveremo alla Cigs, la cassa integrazione straordinaria, frutto dello stato di crisi che moltissime aziende editoriali sbandiereranno. Dietro la Cigs  c’è un ricambio generazionale dei giornalisti accelerato con forza bruta. Vecchi (per modo di dire) contro giovani neoassunti magari a termine con la promessa di una rapida stabilizzazione. Si stabilizzerà quando sarà prosciugato il fondo prepensionamenti, i giornali “asciugheranno” la foliazione (molti l’hanno già fatto) rivedranno l’impianto grafico e abbatteranno qualche redazione distaccata.
Questo è uno scenario possibile, sia chiaro. Forse quello tecnicamente più probabile.

Ma cosa cambia nel prodotto-giornale? Beh, in realtà bisognerebbe chiedersi cos’è cambiato già senza che le strutture aziendali comprendessero quel cambiamento. La Rete sarà sempre più chiave di volta, pur coprendo non più del 10 % degli introiti pubblicitari. Dunque non è che riversando il giornale cartaceo sull’on-line e aprendolo ai commenti e a qualche forum si riuscirà fare cassa. Sul breve periodo c’è una situazione di galleggiamento all’orizzonte. Ma poi? Spariranno davvero i giornali, come sperano Beppe Grillo e qualche centinaia di blogger? Mi auguro di no, ma non è lo stop alle rotative a farmi paura. È la convinzione, diffusa soprattutto in Italia, che  il giornalismo (tanto c’è Internet!) sia una cosa di cui poter fare a meno.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *