In un determinato periodo della mia vita – potevano essere i vent’anni – ho capito che sarebbe andata più o meno bene se non avessi mai smesso di osservare, ascoltare e cercare di capire. Non è banale come presa di coscienza: per chi viene dal sudsud uno dei passaggi fondamentali della “consapevolezza” è inserire nel personale pantheon di conoscenze cose che negli anni dell’adolescenza si ritenevano superate, inutili.
Gli esami non finiscono. L’ho sentita uscire centomila volte, questa frase. Dalla bocca del professore di Impianti e Chimica industriale e da quella del vecchio redattore piuttosto concentrato a buttare in pagina i tamburini di cinema e teatro.
Certo, sentirla dire è un conto, ma assimilare questo concetto è ben altro.
Il preambolo è solo per dire che per esser uomo mi porto dietro un bagaglio tutto al femminile di princìpi, convinzioni. Me ne convinco quando leggo le mail della mia prof di letteratura italiana alla scuole superiori; una distinta signora che un giorno decise di trasferirsi da Posillipo, Napoli, a Nosy Be, Madagascar. E lì creare scuole, strade, ospedali, pozzi, fogne, villaggi. Una specie di Gino Strada, ma meno conosciuta , con meno soldi e soprattutto meno concentrata sulle pochezze italiane anche se avrebbe – eccome – la possibilità di parlarne. Mi diceva: scegliete voi cosa volete diventare da grandi.
Ora che sono più grande di qualche anno, l’ho fatto. Porto quel dolce bagaglio di conoscenze, orgoglio e consapevolezza con me, viene poco dopo i fondamentali consigli di mia madre.
La stessa sensazione di pienezza, orgoglio e buon fardello da portare, è arrivata qualche giorno fa, quando Daniela ha annunciato il suo addio a E Polis che nel dna ha e avrà la sua lucida follia e la profonda conoscenza dell’enorme ingranaggio di questo mestiere, moltiplicato per 15, 16, 17mila volte. Stavolta la lezione è fai quel che dici che farai. Se vi pare semplice, io dico che è semplice come il cerchio a mano libera di Giotto, come il Silence di John Cage, come una battuta di Penthotal e due di Zanardi.
Daniela dice che va a fare L’Unità, quella nuova con la donna direttore; in un pugno le speranze trattenute e l’altra mano, aperta, aspettando la sinistra che (forse) verrà.
Il telelavoro è brutto perché non ci sei quando in redazione ci sono gli addi “pesanti” e c’è sempre quella triste ma fascinosa aria di malinconia e attesa dell’anno che verrà. Peccato non averla vissuta. E che porterà, quest’era, cose nuove? Per me, la lezione: coerenza e onestà non si barattano con una ciotola di riso, mai.
Di E Polis non parlo, si zappa in silenzio come sempre. Per l’Unità non lo so, spero cose ottime; son furbi loro: se è vero che un giornale deve avere un’anima, hanno inziato nel migliore dei modi, con Daniela, tracciando nel futuro questa lunga, lunga, linea gotica.
Questo post è emozionante
Eccome, emozionante.
Specie per quel “bagaglio” al femminile. Quando anch’io racconto di sensibilità “al femminile” che è giusto custodire, un po’ tutti si sconcertano….
ps
ho “commentato” l’addio struggente di Daniela Amenta alla Sardegna che ha fatto sul suo blog. Un’altra cosa “spiazzante” e bella.
oh ciro, quanto mi mancherai pure te, pure te che stavi lontano. grazie per le parole bellissime. sapete dove trovarmi, sempre. ti bacio forte fortissimo. e a roma, vienimi a trovare. solo un’ora di treno, in fondo.
“la mia piccola patria”….
“…sa scegliersi la parte”
Buona fortuna ai bravi giornalisti come voi!
mai come in questo momento c’è bisogno di giornalisti che abbiano a cuore questo delicatissimo mestiere,capace di far vedere la realtà…superando gli arroccamenti novecenteschi…cke nun vor dì sempre e solo volemose bbene…ciao e auguri