Dolori esclusivi

Nelle prime ore del terremoto d’ Abruzzo, scrive Adriano Sofri, «non c’è stato un casting, non c’erano telecamere pronte». Ha ragione, è stato così. Ma per la verità han subito rimediato.  Una autocolonna di  importanti registi italiani e non, vale a dire Paolo Sorrentino;  Michele Placido;  Mimmo Calopresti; Ferzan Ozpetek e Francesca Comencini sono andati o sono ancora a L’Aquila. Riprese subito montate e riversate su web. Perché? Non saprei, davvero, mi viene solo in mente la “Merda d’artista” del “Manzoni quello vero, Piero“.

Contro i giornalisti s’è scatenato invece un putiferio: accusati di scarsa sensibilità. In alcuni casi chi lo dice ha perfettamente ragione. Penso a quel «scrivo da un paese che non esiste più» di Giampaolo Pansa. Fra vent’anni ci sarà un unico articolo di giornale che sintetizzerà  in maniera così efficace la tragedia, come accadde per  il Vajont?

Parlo con un amico documentarista, uno di quelli molto bravi, famosi e profondamente umani nel proprio lavoro. Dice lui che no, non ci sarebbe andato ora  a fare le riprese;  semmai sarebbe meglio farlo fra un mese o due, quando i più si saranno dimenticati di tutte quelle persone che ora sono costrette a vivere, oltre che male, sotto i riflettori delle troupe giornalistiche e di filmmakers assetati di storie.

Ma più di tutto quel che mi stupisce, sconcerta e anche indigna un po’, è quella parola, nella sezione di Repubblica.it del terremoto, dedicata ai video d’artista: Esclusivo.

Il forte sussultare della terra. Dall’Irpinia alla “social calamità”

Non c’è  molto da aggiungere al mare magnum di reazioni; questa è stata la prima “social calamità” italiana: da Facebook a Twitter, per sapere cosa succedeva bastava collegarsi e leggere.
Il lato negativo è che vengono veicolate informazioni frenetiche; mi riferisco a quell’enorme tam tam sul donare sangue; per carità è sempre una cosa buona donarlo, ma intasare ottusamente ogni mezzo di comunicazione senza verificare è un male. Del resto ognuno vuol fare la sua buona parte.

 

Ho letto Guido Bertolaso parlare della  «peggior tragedia del millennio» e davvero non sapevo se sorridere o piangere di disperazione. Ma come fa il sottosegretario all’emergenza rifiuti nonché capo della Protezione civile, nonché capo delle aree archeologiche di Roma e di Ostia ad occuparsi di tutte queste cose? Non è che ora è effettivamente “troppo impegnato”? Non dovrebbe mollare qualche osso?

Io il 23 novembre del 1980 avevo giusto  3 anni: la televisione camminò, il pesce rosso Abramo saltò dalla boccia d’acqua (ma poi si salvò); tutti passammo la notte fuori casa. Quello era ‘o terremoto. Poi a San Valentino dell’anno successivo nuova scossa, detta la ripetuta.
Da allora nelle curve degli stadi ogni tanto ci chiamano “terremotati”; quasi fosse diventata una professione, come quella condizione degli aspiranti operai di Eduardo De Filippo in “Napoletani a Milano“.

Eppure quante cose, questi terremotati stanno insegnando. L’esperienza dell’Irpinia è raccontata da questo secondo me eccezionale documento dell’epoca, dei Vigili del Fuoco. A guardare i tempi di reazione che ci furono in Irpinia, dove morirono 2.500 persone, c’è da rabbrividire. Come c’è da rabbrividire ora a guardare a L’Aquila e in generale in tutto l’Abruzzo sbriciolarsi anche i palazzi delle Istituzioni. L’esperienza dell’Irpinia insegna, eccome. Insegna che siamo nelle mani del padreterno, visto che di edifici sicuri non se ne parla. Forse se ne parlerà ora, dopo la tragedia. Il tempo  necessario ad assicurare un buon “ritorno” sulla vicenda, quando la cronaca sarà meno pressante.