Raffaella Ferré, gli Inutili Fuochi e gli utili libri

Succede quando vedi nascere un libro. Ne vedi concepire l’idea, osservi la produzione di appunti, testi. Poi prime bozze, seconde bozze, terze bozze. Accompagni delicatamente, da lontano, con gli occhi, questa creatura nel mare magnum dell’editoria italiana, incrociando le dita perché visto il mondo chiuso e autoreferenziale c’è da sperare solo che ad occuparsi di quel manoscritto siano persone degne.

Il libro non è tuo, è scritto da dio, ma succede: ti senti ansioso. Il libro non è un facile saggio da consegnare alle discussioni d’attualità, nè una di quelle genialate da marketing nati per contribuire all’entropia e al consumo di cellulosa, per il lavoro di certi uffici stampa da aperitivo milanese e poi da consegnare agli scaffali dell’oblio letterario d’ogni tempo. È una storia che ha emozionato chi l’ha scritta e chi ha avuto la fortuna di leggerla in anteprima. Una storia che ora deve emozionare gli altri. Farsi leggere e – ove possibile – far pensare. Ma per farlo dev’essere esposta nelle librerie. Dev’essere pubblicizzata dai canali giusti. Deve trovare editori competenti, distributori sapienti, recensioni oneste. Ogni giorno si pubblicano in Italia 164 libri. Un italiano medio ne legge 3 all’anno. Di questo passo avrebbe bisogno di  54 anni per leggere la sola produzione nostrana stampata nel giro di ventiquattr’ore.

Diceva Franco Fortini: «Nulla è sicuro, ma scrivi». Diceva pure dell’odio gentile e delle telefonate infami ma cortesi: lui di editoria ne sapeva, eccome.

L’antefatto per dire che il nuovo libro di Raffaella R. Ferré, “Inutili fuochi”  è stato fortunato. Dalle mani dello scrittore è finito in quelle di un ottimo e attento editore, 66th and 2nd, ha ottenuto buone recensioni di partenza e ora si mostra al mondo. L’autrice è timida e recalcitrante alle presentazioni: «Se mi devo spiegare, allora è tutto inutile» scrive sul suo blog. Eppure quando c’è stato bisogno di alzare la voce pubblicamente non si è tirata indietro: ha scritto il testo d’apertura del primo corteo di “Se non ora quando”, il suo primo libro è del 2008 e si chiama Santa Precaria: all’epoca non era ancora esploso come oggi il tema del precariato e fu coraggiosa Stampa Alternativa a pubblicarlo.
Oggi  “Inutili fuochi“, complice un processo di maturazione letteraria, promette a coloro che credettero in quella ragazza di Eboli acquistandone il primo lavoro letterario di trovare una scrittrice. Con una peculiarità: niente a che fare con la spocchia di certe piccole iene dell’editoria italiota. Su questo, permettetemelo, scommetto personalmente.

 

 

Giovedì 3 maggio, ore 18.00
la Feltrinelli, Roma
via del Babuino, 39/40
Intervengono Errico Buonanno e John Vignola

Martedì 8 maggio, ore 18.00
la Feltrinelli, Napoli
via S. Tommaso D’Aquino, 70/76
Intervengono Marco Ciriello e Francesco De Core
Letture di Carmine Borrino

Giovedì 10 maggio, ore 19.00
Salone internazionale del Libro, Torino
Lingotto Fiere 10-14 maggio 2012
Caffè letterario – incontro con autori emergenti, interviene Giovanni Tesio
(a cura del Salone del Libro)

Domande come queste mi perseguitano, infiniti cortei d’infedeli, città gremite di stolti

Io non c’avrei scommesso molto, la mia sfiducia è stata punita, ne sono lietissimo. La partecipazione alla manifestazione “Se non ora quando” ha superato ogni più rosea previsione: è sintomo che qualcosa ribolle e che non è la seppur importante “pagnotta”. Parliamo di dignità e coerenza, di ruolo della politica e moralità.
A Napoli era da tempo che non vedevo una manifestazione con volti sconosciuti in testa al corteo, senza le solite bandiere acquistate in blocco, portate nei torpedoni e recuperate al volo prima di scendere dal bus. Fortunatamente i politici sono stati zitti, un bene, soprattutto a Napoli dove la politica, da tempo, ha perso il diritto di parola.

A Roma Isabella Ragonese ha letto Raffaella Ferré, aprendo la manifestazione nazionale così: noi ci siamo emozionati, io davvero mi sono sentito dalla parte giusta di questo Paese diviso, contraddittorio e triste.

 

C’è tanto da fare, però.
Guardavo i ragazzi di sedici, vent’anni e pensavo che ognuno di loro, in piazza, dopo il sabato sera, valeva da solo cento di noi, mille sindacalisti, diecimila politici.
All’altezza di piazza Dante ne troviamo due che sfruculeano, provocano, prendono in giro le donne in corteo. Mi paro davanti, li guardo e dico: la smetteranno. Loro effettivamente smettono. Il dialogo è stato più o meno una cosa del genere:

– La piazza è la nostra
– Ok, la piazza è anche vostra, ma ora c’è una manifestazione, non vi interessa?
– Affinale stamm ‘cca pecche’ nun tenimmo niente che ffa’.

Così si conclude il primo round. Inizio con una pazienza che non ho mai avuto nella mia vita, a spiegare il perché di quel corteo. Sono in due, avranno 16 anni a testa, ascoltano.

Poi, interviene una signora iperattiva. Una di quelle tranquillone della mediaborghesia per le quali indossare un cappotto rosa significa aver acquisito lo status di femminista-serviziod’ordine-coordinatrice dell’intero iperuranio. La signora, giustamente, che fa? Chiama la Digos.
Arriva quest’ispettore che con toni bruschi manda via i ragazzi. Probabilmente mi riconosce, perché mi infila subito dalla parte dei buoni, nonostante la mia faccia non esprima nulla di buono.

I ragazzi vanno via trotterellando e mormorando contro “la guardia” che li ha cacciati dalla piazza. Si avviano verso i vicoli del vicino Cavone: probabilmente è da lì che scendono.

Chiedo alla signora perchè avesse chiamato il poliziotto rischiando di creare una piccola tempesta in un bicchier d’acqua (la manifestazione è andata liscia, pacifica, affollatissima e non ha avuto bisogno di nessun intervento delle forze dell’ordine).
La signora col cappotto fluorescente risponde piccatissima: «Se ne devono andare tutti, la piazza è nostra oggi». Cara signora col cazzo di cappotto orripilante, spiego,  la piazza non è tua e quei due ragazzi  tu li devi recuperare perché è da loro che dipende tutto, sono loro che dovranno saper scegliere al momento giusto da che parte stare. Erano due sbruffoncelli ma ci stavamo parlando. Dannata signora col cappotto inguardabile, vedi? Tuo marito annuisce e mi sta dando ragione, benedetta signora col cappotto frutto di una allucinazione Lsd, lo capisci che dobbiamo educare questa città al bene, alla prospettiva, al dialogo? Tu in questa piazza, oggi, stai perdendo tempo.
La signora va via, inveendo. Il marito la segue. Io trotterello verso la statua di Dante. Per la cronaca, cinque minuti dopo i ragazzi erano di nuovo lì.

Metti che due persone normali scrivano, tanto per dire

«E il peggio è che, tutto quello che scopro, devo gridarlo intorno. Come un amante, come un ubriaco, come un traditore».
Bertold Brecht

Torni a casa, scrivi. Sei in strada, cacci il taccuino dalla tasca che lo ingoia e si è allargata, diventando della stessa forma del blocchetto. Scrivi. Ho una busta (di carta) che dentro ospita taccuini bellissimi, nuovi, fantastici. Tutti attendono di essere scritti: sono il mio futuro.
Il presente è invece delle battute in 140 caratteri, degli status sui social network. A cosa stai pensando? A cosa penso, vuoi davvero saperlo? Che non sono le 4 pareti di casa a rendermi stretta la vita, ma uscire e trovare moltitudine di pareti invisibili, manco fosse il labirinto di specchi nel parco giochi.
Scoprire i limiti non è una conquista. È il prendere atto di dover fare una scelta: o rompere le barriere o star lì, guardare dalla finestra (ipotesi non necessariamente sbagliata, solo diversa).

A noi cosa viene chiesto? Di scrivere. Di scrivere in maniera convinvcente, schietta, secca. Scrivere e sottrarre  la retorica al periodo. Lavorare il legno ma non intarsiarlo. Modellarlo come durissimo ebano ma non per farne randello bensì fresca secchiata d’acqua. Ti arrabbi quando la ricevi in faccia ma subito dopo ti rendi conto che è tutta vita, non ne potevi fare a meno.

Così nasce il fatto che torniamo a casa e scriviamo, cacciamo il taccuino dalla tasca e scriviamo, testimoniamo.  Senza patrocini morali del Comune, senza contributi all’editore, senza la spalla dell’esperto letterario. Scriviamo perchè è la prima cosa che dovremmo fare ma la penultima che ci viene in mente. E così scriviamo forte, come i dannati, buttiamo giù quello che ci viene e lo lanciamo ma non nell’oceano – che stupiditaggine, lanciare senza aver chiaro l’obiettivo – ma a chi ha orecchie tese.

Possibile. È possibile dunque che domani, in piazza del Popolo, leggeranno Raffaella che si è seduta e ha scritto.

Qui il testo integrale: Mi sveglio, mi pettino e allo specchio mi trucco. Vado veloce e mi porto avanti coi compiti della giornata, il tredici febbraio è domenica ma io lavoro lo stesso: le mie precarie occupazioni non conoscono giorni di festa; faccende e responsabilità ataviche che mi obbligano a mettere in tavola laboriosi piatti ne sanno ancora meno. La mia flessibilità, l’autonomia, esiste solo nei salotti televisivi: il tredici febbraio io che raccolgo i capelli e trucco gli occhi sono una donna che assolve alla sua prima mansione, io non stacco mai, sempre pronta, sempre duttile e disponibile, sempre carina, sempre attenta.
In questo giorno che cade e divide a metà il mese più corto, nel mio Paese 150 anni fa unito e tanto frammezzato e diviso sformato io sono una madre e una lavoratrice in cassaintegrazione, una scrittrice e un’impiegata. Sono, nell’ordine, una commessa e una ricercatrice, una femminista e del femminismo non so niente. Sono una minorenne marocchina e una precaria recidiva, io sono un’universitaria e una casalinga, e mi prendo tempo, lascio la spesa a metà, afferro la borsa.
Il tredici febbraio io porto per strada la mia rabbia come un cane senza guinzaglio, non giudico, non appartengo ad un partito o all’altro e non tollero: non sono agnello tra i lupi, né lupo travestito da agnello, non mi sottometto né agito la mia sottomissione come una spada. Il tredici febbraio io rinuncio alle file di denti da far brillare, al corpo teso da offrire come tangente, al piatto di pasta che mi faccia perdonare, sciopero anche la mia tranquilla forza lavoro pagata poco e male, smetto persino di sentirmi sprecata e costretta nell’angolo di una dicotomia che mi vuole pentita prostituta siliconata o grezza vergine slavata ma sempre femmina, sempre io, in fondo.
Il tredici febbraio io mi dimetto, mi licenzio. E al ruolo di efficiente, silenziosa, furba bellezza da pubblicità, io abdico. Il tredici febbraio io scendo in piazza.

È possibile che domenica, a Londra, davanti Downing Street leggeranno una mia riflessione di qualche giorno fa (e questo però è possibile soprattutto perché Alessandra ha apprezzato, poi si è seduta e con santa pazienza ha tradotto).

Libri, libri, libri: tutto in 48 ore

Allora, la bella notizia è che “La mia banda suona il porn“,  oggi, giovedì, alle ore 18 sarà alla Fnac di Napoli con i suoi autori, Paolo Baron e Raffaella R. Ferrè.

Ventiquattro ore dopo, il sottoscritto vi allieterà con Maurizio De Giovanni e Giuliana Covella (sempre ore 18) ospiti alla Ubik di via Benedetto Croce, sempre nel ridente capoluogo, per presentare il libro fotografico “Napoli in bianco e nero” di Mariconda e Castronuovo.

Camorra ovunque. Tranne che nelle biblioteche comunali

Qualche mese fa sono stato a Massa Lombarda bella cittadina del Ravennate, per una delle presentazioni di Santa Precaria. Non ne ho mai parlato, però voglio ringraziarli tutti, (loro e gli amici di Bagnacavallo) sono stati di una cortesia e di una simpatia senza pari. Gente straordinaria da quelle parti.

Insomma, la presentazione di un libro e quale luogo migliore di una biblioteca? A Massa Lombarda ce n’è una che è uno splendore. Fresca, pulita ma al tempo stesso che sa d’antico e di “tenuto bene”. Non ho potuto fare a meno di notare che si mantengono aggiornati anche per quel che riguarda il catalogo. Sono andato a vedere i libri sulla camorra. Ovviamente avevano “Gomorra” ma ce n’erano anche altri, tutti di recente uscita.
Me ne sono ricordato ieri quando ho scritto un pezzo per E Polis sulle 13 biblioteche di proprietà dal Comune di Napoli.  Basta consultare il catalogo partenopeo per rendersi conto di quanto la città di Napoli abbia a cuore il loro stato di salute. C’è di tutto, ma non c’è l’ultimo decennio di libri che descrivono il fenomeno camorristico. Il confronto col catalogo della Provincia di Ravenna fa impallidire. E non ce l’hanno loro la camorra, ce l’abbiamo noi! Noi dovremmo capire più e meglio di loro di Casalesi, di faida di Scampìa, di latitanti, di canzoni neomelodiche che esaltano i boss.

Inutile dire che l’assessore al ramo, Diego Guida (guarda caso imprenditore nel settore librario) non s’è degnato di dare una risposta. Beh, mica può rispondere a tutti… forse è troppo impegnato a pubblicizzare che il Comune  venderà la vecchia Lancia dove fece un giretto pure il Duce.