Il concetto di amicizia e il parametro Harrods

Quando sono in viaggio per svago mi piace – come a molti penso – stare in giro, camminare e guardare, ascoltare le parole in una lingua che non è mia (mi piaceva anche molto mangiare, un tempo). E così finisce che l’albergo lo uso solo per dormire.
Ricordo che una volta a Londra finii ai grandi magazzini Harrods e una birra qui, una costosa acqua gassata lì, ecco, dovevo proprio pisciare. Andai nei lussuosi bagni di Harrods. Non so se vi sono mai capitati i cessi dei luoghi pubblici a Londra, a me fino a quel momento era sempre andata male. Una volta in aeroporto sempre per quel fatto di tracannare litri d’acqua mi trovai tipo una specie di Bin Laden seduto sulla tazza, con la porta aperta. Era la prima volta a Londra e, devo dire, non fu un bell’impatto.

Insomma, andai nella toilette di Harrods e c’era un inserviente, vestito bene, un usciere dei cessi serio e dignitoso. Mi salutò con un cenno del capo prima di entrare “in cabina”. Io entrai, feci quello che dovevo fare e uscii. Una volta fuori lui mi fece un altro cenno di approvazione con la testa. Andai a lavarmi le mani e lui mi indicò dov’era il sapone e dove potermele asciugare. Feci quello che dovevo fare, lui annuì di nuovo (lo faceva a tutti, non è che gli ero particolarmente simpatico) e poi, il tocco di genio. Aveva un flaconcino di profumo e mi chiese se gradivo un poco di questo profumo sulle mani. Così l’usciere dei cessi mi spruzzò la delicata essenza e poi, prima di congedarmi, mi saluto con un «Have a good day».

Ripensandoci, al ritorno in Italia, realizzai che l’usciere del cesso di Harrods aveva fatto molto più di quanto tanti presunti amici avevano fatto per me in tutta la loro vita.
E così da allora applico il parametro Harrods all’amicizia: se ha fatto meno dell’usciere dei cessi, beh, non puoi definirlo proprio tuo amico.

Movimenti infografici, mash-up e l’Italia “no-data”

L’infografica non è solo quella bella immaginetta sulla pagina di sport dei giornali, è la possibilità di utilizzare dati da rendere graficamente fruibili e immediatamente comprensibili  al lettore.
Ci sono quelle immagini statiche, con numeretti e bei disegnini. Poi  il mondo si è evoluto: ora ci sono anche certi straordinari mash-up, eloquenti più di cento pagine di giornale.
Parlare del sistema di metropolitana di Londra è una cosa, guardarlo muoversi è un’altra. È possibile grazie ad elementi messi a disposizione dall’amministrazione londinese.

Stessa situazione per questa mappa interattiva della migrazione americana: funziona grazie ai dati messi a disposizione dal Dipartimento del Tesoro Usa. Della decisione dell’amministrazione Obama di mettere a disposizione tonnellate di dati, ne parlano nel loro “L’ultima notizia“, Massimo Gaggi e Marco Bardazzi.

La domanda, banale, scontata, ma inevitabile è la seguente: da noi esperienze del genere perché non sono state nemmeno ancora tentate? Nemmeno una tabella excel, due numeri messi in fila. Manco l’Istat, le Autostrade, Trenitalia, niente di niente.  Quanti anni dovremo attendere ancora?

Do you speak english? Dei prof d’inglese

In questa prima parte dell’anno che mi ha visto passare da Londra a Berlino ho definitivamente fatto cadere la maschera: l’inglese e io non siamo proprio amici. Non ci capiamo, vorremmo. Cerchiamo di trovare nuove strade ma è complicato. A Gerusalemme capivano anche i miei latrati anglofoni da imbecille, in Germania invece no, finivano per rispondere con una cazzimma allucinante in dialetto stretto tedesco arrabbiato. Così finisce che per leggere un articolo di giornale ci metto il triplo degli altri, per capirne il senso  e non tirare a indovinare, tengo in bella vista i link del vocabolario on-line e soprattutto il malefico traduttore di Google (che traduce robe del tipo “andare tu fatto computer device aggiustare alee oh-oh”). E dire che io lo amo, l’inglese: più mi faccio vecchio e più sento la necessità di leggere e capire in inglese. Insomma, lo sto ristudiando.

Però certe cose poi bisogna dirle:  tutto questo casino dov’è cominciato? A scuola.
Alle  medie, nonostante immane sforzo mnemonico non riesco a ricordare chi fosse il mio o la mia insegnante d’inglese. Eppure i prof non si scordano mai: evidentemente questo/a imbecille dev’essere passata in maniera così superficiale nel mio corso di studi da non lasciarmi niente. Il vero capolavoro però, l’hanno fatto le scuole superiori.

Primi due anni, Tecnico industriale, biennio sperimentale (internet e inglese, su internet sorvolerei per ora).
Professoressa ipercattolica, andava vestita tipo gli Amlish e puzzava da una ventina di chilometri di distanza. Ci costringeva ad alzarci in piedi (sto parlando degli anni Novanta, non ho fatto le scuole con Garrone e Franti) e recitare l’Ave Maria in inglese.
Hail Mary, full of grace. The Lord is with thee. Blessed art thou amongst women….eccetera eccetera. Nel corso della preghiera, io davo sfogo alla mia personale frustrazione menando iastemme  così potenti e strutturate da far cadere l’intera Cappella Sistina, mischiate fra un “Holy Mary” e un “the fruit of thy womb, Jesus”. Ci andava di mezzo un compagno di classe che aveva gli occhiali molto spessi, a culo di buccaccio. E lui, durante la preghiera, replicava agli insulti con inventiva degna di autisti del bus sciasciani. Ci costringeva a mandare lettere in inglese al Wwf. Un giorno il Wwf inglese ci rispose, piuttosto risentito, con un tono del tipo “il Wwf c’è anche in Italia, perché cagate il cazzo a noi?”. Ma lei era soddisfatta. Così sono passati i miei due anni di inglese sperimentali.

Con questa straordinaria base di biennio, i tre anni successivi di Chimica industriale sono stati una passeggiata. E’ arrivata a me una tizia strana, incrocio tra la nonna della candeggina Ace e la Signora in Giallo. Una marea di fotocopie, uno tsunami di unit, translate into, vocabolari Collins, audiocassette. Poi dopo le buone intenzioni attaccava a parlare della figlia coinvolgendo tutti sulla scelta: 1) della palestra; 2) della facoltà universitaria; 3) delle scarpe; 4) dei cappottini. Due anni così. E l’ultimo, invece, tutto dedicato all’inglese tecnico. Ovvero: fai chimica? Devi sapere che si dice Chemistry, che l’Ossigeno si dice Oxygen e così via. Poi se non sai manco chiedere dov’è il cesso, non è un problema. Figurati se uno che ha fatto l’Istituto tecnico industriale statale va in Inghilterra. E invece  ci sono andato, andato brutte bagasce, e mi sono dovuto scrivere una frase fondamentale: “Help, i’m lost”.
Aspettando il British Institute che verrà.

Babele su rotaia

Quel poco che sono stato a Londra ha confermato una mia coinvinzione sui trasporti napoletani: è più difficile prendere un metrò a Napoli che ha un paio di linee e una ventina di fermate che capire il meccanismo della Tube londinese, una formazione laocoontica di convogli, un numero sterminato di fermate.

A tal proposito, ecco il cartello informativo di Metronapoli, la società della Linea 1 di Napoli, il metrò nuovo, cosiddetto “collinare” (ce n’è poi uno gestito dalle Fs).

1metronapoli

Il cartello informativo non risponde alla prima, fondamentale domanda: dove conducono le metropolitane napoletane? Già, perchè dal cartello Metronapoli è clamorosamente sparita l’altra linea, la 2 (Gianturco-Pozzuoli).  Non importa alla Metronapoli dare un’informazione completa: vuol solo comunicare quali sono i mezzi sotto sua gestione fruibili. Eppure non è un’azienda mossa dall’esclusiva volontà di profitto: è una società tutta pubblica. E ancora:  in una esibizione muscolare di progetti e progettini, il cartello (che è in tutte le stazioni del metrò 1 di Napoli) chiude l’anello su rotaia aggiungendo alla linea funzionante (Piscinola-piazza Dante) le “tratte in costruzione” e quelle di “estensione futura”.
Per la serie: queste fermate ci sono, queste qui le stiamo facendo, queste ultime invece, non preoccupatevi, le abbiamo soltanto pensate.

Chuva oblíqua

È la pioggia che sfugge agli ombrelli, tocca in faccia identica a quando, in estate, i raggi di sole bruciano e sembrano tatuare la pelle; non è Lisbona con la pioggia obliqua di Pessoa, nè la light rain londinese.
Non è il nuvolone che da Lungotevere all’autostrada di Tel Aviv mi seguiì per far compagnia, insegnandomi che  viaggiare poco significa poter tramutare ogni particolare in fenomenale coincidenza.

Pioggia napoletana, rassegnata: tira quel poco di vento; bisogna bagnarsi e accettarlo, come si accetta la precaria esistenza dell’acqua nelle pieghe dei pantaloni, sulla punta delle scarpe.