L’ipocrisia di Napoli, Banksy e l’arte liberata

Via Benedetto Croce è il centro del centro di Napoli. Una strada-vetrina: sui muri ci sono scritte, volantini, locandine delle discoteche e quelle dei disoccupati organizzati. In mezzo a tutto questo, Banksy, il writer inglese più misterioso e figo, ci aveva disegnato una Santa Teresa berniniana, bianco su nero con patatine Mc Donalds e Cocacola. È rimasta lì fino a quando non è arrivato un fiume di spray colorato a coprirla con una maxi-tag di chissà quale graffitaro.
Tutti a sbattersi e scandalizzarsi dello scempio. Ho letto perfino qualcuno che parlava di tutelare gli altri stencil che Banksy ci ha lasciato da queste parti, magari  che so, mettendoci una telecamera o un vetro. Insomma, follia pura.

O come la si deve chiamare, la voglia di mettere sotto chiave, sotto tutela o peggio ancora, sotto  sorveglianza, un’arte che per stessa ammissione di chi la produce è guerriglia, non il David di Michelangelo ma quadro appeso su un museo a cielo aperto, il muro, che chiunque può far proprio. Come dice lo stesso artista: they’re good enough to be in there, so I don’t see why i should wait!

Poi dice che il valore di quel disegno cancellato era di 100mila euro. Sono sempre stato curioso sul come si valuta in moneta sonante un’opera d’arte. Paradossalmente proprio in questo caso davvero mi sembra di dare un valore economico alla Cappella Sistina. Che cattiveria facciamo a Banksy preferendolo ad una scritta “Mario ama Maria”, proprio a lui che dice della sua arte: is not a guerrilla marketing campaign for a clothing label.

Altro che Benedetto Croce e Santa Chiara. Io me lo sarei portato al quadrivio di Secondigliano, gli avrei fatto vedere quel finto portone d’accesso ad un fantastico giardino disegnato sulla facciata di un palazzo e tutt’intorno morte e armi. Come fece lui sul muro, in Palestina.