Stamattina, sfogliando Repubblica, il solito quarto di pubblicità a colori sul nuovo numero de l’Espresso. Apertura a Roberto Saviano: “Io, condannato a morte”. Belle foto di Mario Spada. Saviano avrà avuto che so, 5-6 aperture dell’Espresso da quando è uscito Gomorra. Un nuovo Rushdie per la cultura europea, un nuovo Giovanni Falcone o Paolo Borsellino per lo sprezzo del pericolo con il quale porta avanti la sua battaglia di legalità.
Queste ultime due frasi non le penso io, sono quello che sento dire, più o meno. Anche perché quello che penso non ha molta importanza: parlano le copie vendute, le scorte, le interviste, il clamore. Parla uno dei principali settimanali italiani che col gruppo editoriale concorrente si divide il giovane di belle speranze Saviano.
Ma perché il collegamento con Rita Bernardini, o meglio con quello che la segretaria dei Radicali sostiene (si parla sempre più il dialetto napoletano nei locali romani, quindi c’è infiltrazione camorristica) ? In quest’anno si è sviluppata una nuova corrente di pensiero (beh, più che nuova è direi ciclica), il Savianismo. Ovvero l’accusa verso un sistema (quello camorristico) che diventa indiscriminata accusa verso una generazione; un dito indice comodamente puntato («e voi, dov’eravate?») su un piedistallo costruito e reso accessibile da altri. Perché m’incazzo con Roberto Saviano, perchè mi faccio il sangue amaro leggendo che nell’ultima intervista-monologo sull’Espresso parla di “questione meridionale” quasi fosse il salvatore della Patria? Eppure non ho nulla contro di lui. Ho comprato Gomorra e il libricino del Corriere, continuerò a comprare i suoi libri. Ma grazie anche a lui ora è così facile, per una Bernardini qualunque, sentire parlar napoletano in un locale di Roma e dire che per quel motivo lì sono tutti in odore di camorra.