La Napoli che non è di Napoli (oggi è bel tempo e io non voglio essere frainteso)

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Oggi è una bella giornata e io non voglio essere frainteso: sono nato a Napoli (non in provincia, profani, io sono del rione). Conosco questa città non grazie a Instagram o a un tag. La conosco dai racconti, dai vicoli in cui sono nato, dai vasci che ho frequentato con amore e sconfinata riconoscenza. Come ho frequentato le case belle del Vomero e di fronte c’era il panorama. Pure su casa mia c’era il panorama. Per vederlo devi uscire e salire un po’, ma ne vale la pena. Poi c’è l’Osservatorio Astronomico e io ero l’unico del vicolo che sapeva cosa ci fosse, a cosa servisse. La Napoli che non è di Napoli: il Bosco di Capodimonte era di tutti, noi andavamo a giocare a pallone ma non rompevamo il cazzo a nessuno. O forse sì e l’ho rimosso.

Mi viene in mente questo ricordo svogliato, che potrebbe essere molto più bello, particolareggiato e seducente oggi che a Napoli è una bella giornata di primavera e per tornare a casa abbiamo dovuto fare lo slalom: gli scippatori ci hanno seguito professionalmente fino all’uscita del vicolo, hanno imboccato controsenso via Cesare Rosaroll pensando di poter strappare una borsa e ridiscendere giù fino a vico Pontenuovo e da lì incrociare via Cirillo e uscire dalla circolazione.

Ma oggi Napoli è bellissima, c’è bel tempo, non voglio essere frainteso: le scale che portano al palazzo di casa mia avranno visto gli spazzini l’ultima volta quando è venuto Papa Francesco in città e ora si è messo un povero cristo, un immigrato, stipato in mezzo alla munnezza, in un posto dove non tira assai vento , imbardato di coperte, a dormire.

Napoli è bellissima e domani scenderò di nuovo al lavoro, percorrerò via Cesario Console come una discesa a mare e poi via Santa Lucia. Guarderò l’orizzonte scordandomi che vivo dall’altra parte della città, in una Napoli che non è Napoli per chi deve decidere il presente e il futuro di Napoli. E fino alle ore 20 scorderò di dover tornare a casa, prendendo un filobus 201 se passa. Che se non passa è meglio salire, farsi piazza Dante e poi piazza Cavour e via Foria che tanto camminare fa bene.

L’arte del pernacchio

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«Figlio mio, c’è pernacchio e pernacchio… Anzi, vi posso dire che il vero pernacchio non esiste più. Quello attuale, corrente… quello si chiama pernacchia. Sì, ma è una cosa volgare… brutta! Il pernacchio classico è un’arte. […] Il pernacchio può essere di due specie: di testa e di petto. Nel caso nostro, li dobbiamo fondere: deve essere di testa e di petto, cioè di cervello e passione. Insomma, ‘o pernacchio che facciamo a questo signore deve significare: tu sì ‘a schifezza ‘ra schifezza ‘ra schifezza ‘ra schifezza ‘e l’uommn. Mi spiego

Eduardo De Filippo in “Don Ersilio Miccio” da “L’oro di Napoli”

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Napoli, le classifiche sulla qualità della vita e Erri De Luca

10929959_10206454301106239_7291405629919177723_nOgni anno arriva la classifica della qualità della vita. Io concordo sul fatto che Napoli sia agli ultimi posti: vivere qui non è agevole né facile.
Però riporto volentieri il pensiero, bello, di Erri De Luca.

«Ignoro i criteri di valutazione ma dubito che siano adeguati allo scopo. C’è qualità di vita in una città che vive anche di notte, con bar, negozi, locali aperti e frequentati, a differenza di molte città che alle nove di sera sono deserte senza coprifuoco. Considero qualità della vita poter mangiare ovunque cose squisite e semplici a prezzi bassi, che altrove sarebbero irreali. Considero qualità della vita il mare che si aggira nella stanza del golfo tra Capri, Sorrento e Posillipo.

Considero qualità della vita il vento che spazza il golfo dai quattro punti cardinali e fa l’aria leggera. Considero qualità della vita l’eccellenza del caffè napoletano e della pizza. Considero qualità di vita la cortesia e il sorriso entrando in un negozio, la musica per strada. Considero qualità della vita la storia che affiora dappertutto. Considero qualità della vita la geografia che consola a prima vista, e considero qualità della vita l’ironia diffusa che permette di accogliere queste graduatorie con un ‘Ma faciteme ‘o piacere’.
Per consiglio, nelle prossime statistiche eliminate Napoli, è troppo fuori scala, esagerata, per poterla misurare».

Di direttori e del morale dei rematori

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«….Battevo come un disperato sulla tastiera delle vecchie e mastodontiche Olivetti Studio, pagine e pagine di “orrendo delitto alla Bovisa” e “alba di sangue al Giambellino ” che i fattorini mi strappavano dalla macchina per correre giù in tipografia senza neppure lasciarmeli rileggere, perché non c’era il tempo, non c’è mai il tempo.
Mi vedevo condannato per l’eternità a produrre colonne di piombo su delitti e tamponamenti nella nebbia, inchiodato alla Olivetti Studio. Mi mancavano la stazione, la Questura, mi mancavano i paesi della cintura con gli abitanti ancora sbalorditi dall'”audace colpo” e mi mancavano persino, Dío mi perdoni, i furti di fotografie ai colleghi. Mio padre scuoteva la testa al pensiero del figlio ormai prigioniero del giornale. Mia madre cominciava a temere di avere sbagliato a farmi lavorare, perché studiavo sempre meno e ci avevo preso gusto. E il ragionier Coscia finalmente arrivò in cronaca con una scatola di legno in cui c’erano le lettere di assunzione, per tutti gli “abusivi”.
Tutti meno io. Il ragioniere distribuì le buste con aria disgustata da tanta generosità padronale, se ne andò in silenzio, e mi lasciò solo con il magone. Pochi secondi dopo Nutrizio entrò in cronaca come non faceva mai. Chiese a voce altissima: chi ha scritto oggi la notizia del delitto di piazzale Brescia? Lui, disse il Brambilla indicando me. Bravissimo, è la notizia di cronaca meglio scritta che abbia mai letto in quarant’anni di mestiere. E se ne andò.
L’avrei abbracciato. La notizia non valeva assolutamente nulla e lo sapevo. Ma avevo capito che Nutrizio, il Dio, lo Squartatore, il Re Sole in persona, si era preoccupato di me, del morale dell’ultimo fra i suoi “rematori” nel giorno della umiliazione pubblica.
Seppi più tardi che aveva cercato invano di farmi assumere ma il temibile ragionier Coscia aveva deciso che quindici bastavano, e che la sedicesima assunzione sarebbe stata, chissà perché, di troppo. Avrei voluto abbracciare Nutrizio, dirgli che avevo capito quel giorno che lui era un grande direttore perché sapeva prendersi cura anche di quelli che non contavano niente, perché mi aveva insegnato che il morale dei giornalisti conta più della loro bravura per mandare avanti l’avventura dell’informazione. Invece mormorai solo un “grazie, direttore”, e due giorni dopo tornai nel suo ufficio in penombra nell’alba delle nebbie milanesi per dirgli che me ne andavo per sempre dalla sua “Notte”.
Nutrizio è morto nel 1988 e si è portato via il rimorso di un suo cronista che non trovò mai il tempo di ringraziarlo
».

Vittorio Zucconi – “Parola di giornalista”

Notturno napoletano


Corteo di scooter che corre facendo un casino della madonna chissà dove e perché. La cocaina è arrivata: sparano le botte nel vicolo. Qui a fianco un tizio urla al cellulare con la fidanzata, in perfetto italiano la chiama «Grande, immensa cessa». L’odore dei cornetti di notte si insinua fin su al quarto piano. La puttana cinese ha appena ricevuto un cliente. La ragazza al secondo piano è affacciata come me e non prende sonno per via del caldo. Perché fa caldo, però è tutto un brulicare di personaggi. Sono le 23.30 circa e questa parte di città non si ferma, non dorme mai.