Web-tv del Comune di Napoli, una telepensionato con cataratta

Insomma, il Comune di Napoli ha deciso di perseverare e iniziare le trasmissioni della sua web-tv. Il Coordinamento giornalisti precari della Campania che mi vede tra i suoi fondatori, sostenitori, compagni di battaglia, ha voluto dire la sua focalizzando l’attenzione su un  particolare: a parte la redazione di dipendenti comunali, i “collaboratori” (pagati? non pagati?) della web-tv comunale saranno tutti giornalisti pensionati. Per lo più pensionati ex Rai.

Che non sia una scelta lungimirante lo si capisce dall’età media, superiore ai 65 anni (sessantacinque, sì) di speaker e cronisti di quella che è stata giustamente ribattezzata “telepensionato”. È un fenomeno, quello dei giornalisti pensionati che non mollano e si riciclano in altre imprese editoriali, destinato a crescere: la mia “generazione lavorativa” è quella che ha attraversato la grande crisi della stampa degli ultimi cinque anni, tuttavia, a Napoli, in Campania, questa crisi ha assunto contorni singolari: ci si aspettava fossero i giovani ad andare – con difficoltà – avanti ma così non è stato. Si sperava di trovare un poco di luce nelle tenebre, grazie alle nuove competenze acquisite, alla padronanza dei nuovi mezzi, magari sì affiancati da colleghi d’esperienza, pronti ad insegnare il mestiere sul campo (io sono stato fortunato, mi è capitato anche questo)  e grazie alla resistenza alla flessibilità selvaggia che ormai caratterizza la mia scalognata generazione.

Niente di tutto ciò.

È accaduto che i pensionati d’oro provenienti dalle grandi testate, cioè garantiti fino all’ultimo, usciti dalle redazioni coi ricchi “scivoli” dei prepensionamenti, ghiotti scatti d’anzianità e importanti cariche, ora pur precependo pensioni che noi potremo solo sognare, offrono la loro prestazione anche a costo zero, uccidendo un mercato già dannatamente avariato.
E qui torno alla web-tv. Possibile che superpensionati si tuffino in una avventura gratuita (così dicono) per il solo gusto d’esserci? Oppure li pagano? E allora il Comune di Napoli dovrebbe spiegare quali sono stati i criteri di scelta dei colleghi. Vi consiglio di andare a ritroso in questo blog, troverete la storia dettagliata di questa web-tv.


Addirittura c’è una richiesta di fornire foto e filmati aggratis, come il peggiore dei portali. Trattandosi dell’Amministrazione della terza città d’Italia ci si sarebbe aspettata una presa di posizione delle forze politiche. E invece, nulla. Maggioranza  (centrosinistra  ovvero Pd, Rifondazione e cespugli vari), opposizione (Pdl e fuoriusciti finiani e Udc) non hanno battuto ciglio.
Io me ne ricorderei pure, alle prossime elezioni, semmai decidessi di tornare a votare. Poi però mi viene da pensare che nemmeno il mio sindacato, l’Assostampa Campania o l’Ordine dei giornalisti della Campania, hanno battuto ciglio. Paura di infastidire i colleghi della “vecchia guardia”?

Poi però oltre quello sindacale, c’è il discorso giornalistico ed editorale.
Ecco, lì la questione è più complessa. Valutare un prodotto di altri colleghi richiede calma e tatto. Beh, mettiamoli da parte: quella tivvù è uno schifo. Non è comunicazione istituzionale, è una rappresentazione assurda della città.
Leggo da un lancio Ansa di ieri:

NAPOLI, 3 GEN – Il «Gran Ballo d’Italia di fine anno – Concerto di Capodanno 2011» sulla Web Tv del Comune di NAPOLI. Il Capodanno 2011 di Piazza del Plebiscito a NAPOLI arriva sul il web.

Beh, se questa è la rappresentazione istituzionale possibile di una città come Napoli, rappresentazione possibile grazie a fondi dell’Unione Europea (Società dell’Informazione), possiamo ben dire che sull’obiettivo della telecamera di Telepensionato, è calata la cataratta. Un intervento è sempre possibile, ma al momento non vedo nessuno farsi avanti.

È tempo di cambiare anche per Bob

Solo mostri sacri del giornalismo mondiale come Bob Woodward e Ben Bradlee possono ironizzare sulle grandi innovazioni tecnologiche che coinvolgono il giornalismo e su quanto questi cambiamenti possano determinare scetticismo nei colleghi della “vecchia guardia”. È la stampa hi-tech, bellezza, e tu non puoi farci proprio niente.

Stampa gratuita, ma l’informazione ha sempre un costo e un valore

Nel treno per pendolari, su cui salgo la mattina per recarmi al lavoro, l’unico, o quasi, a leggere un giornale comprato all’edicola sono io.

Così inizia un interessante articolo dello scrittore e saggista Marco Belpoliti su La Stampa incentrato sui quotidiani free press in Italia. Al di là di una realtà («la free press è in crisi») e di un bel passaggio su EPolis, il giornale cui sono ovviamente legato («EPolis, che probabilmente è stato il più innovativo nella scrittura giornalistica..) Belpoliti sostiene una tesi in parte vera, circa la  particolare tipologia di diffusione dei giornali gratuiti e certi loro inconsapevoli  “meriti” :

La free press è un fenomeno che occupa le prime ore del mattino. Nei luoghi più frequentati della città un folto numero di extracomunitari distribuisce i giornali davanti alle stazioni dei treni e del metrò, nei piazzali dei pullman e nelle strade più frequentate. I lettori sono quasi tutti pendolari, per la maggior parte immigrati. Si tratta di fogli ricchi di pubblicità: piccola pubblicità locale che non entra nei giornali maggiori o nelle riviste, perché troppo costosi. Sono letti da un pubblico poco acculturato, con consumi orientati verso i gadget e gli oggetti di largo consumo. Tuttavia un merito la free press l’ha, e davvero grande: ha insegnato l’italiano agli immigrati. Nel corso dell’ultimo decennio i principali lettori sono stati peruviani, ecuadoriani, colombiani, romeni, albanesi, polacchi, ovvero molte delle nazionalità arrivate in Italia. Forse bisognerebbe pensare di dare un premio speciale alla free press: sono stati il maestro Manzi della nuova alfabetizzazione all’italiano. Non è mai troppo tardi, come si chiamava la trasmissione televisiva di Manzi. Anche con la free press.

Il riferimento al celebre “maestro della tivvù” che attraverso il mezzo televisivo contribuì non poco ad unificare il linguaggio dell’Italia dei cento dialetti è sicuramente bello. E parte da un dato vero, cioè quello della stampa gratuita sempre più vicina ai gusti degli immigrati: se n’è accorta già da tempo la pubblicità, tant’è  che spesso i quotidiani gratuiti ospitano ad esempio inserzioni di operatori di telefonia mobile italiani, ma scritti in lingua straniera e con offerte per contattare ad esempio il Nordafrica o l’India o l’Est Europa.
Ma questo basta a far considerare i giornali gratuiti un fenomeno legato solo agli immigrati: li leggono loro, giusto perchè sono gratuiti? Secondo me no ed è l’errore commesso da Belpoliti: non aver colto in pieno ciò che è accaduto in questi anni, in particolare con l’avvento di una certa free press di qualità, non certo «fogli ricchi di pubblicità» (magari fosse stato così…). Secondo me nel suo treno, Belpoliti avrebbe dovuto chiedere ai compagni di viaggio la nazionalità. Avrebbe appreso che sono per lo più italiani: il mercato degli immigrati è sì in aumento ma non certo predominante.

Altra questione. La stampa gratuita, mi riferisco soprattutto a quello che per 4 anni è stato EPolis, ha preso il posto di molti giornali di cronaca locale, ha ricostruito un legame tra il lettore e il “suo giornale”, distrutto negli anni dalla corsa ai contenuti nazionali, al web più 2.0, alle sinergie fra testate dello stesso gruppo allo scopo di contrarre i costi il più possibile.
Come? Con un impianto grafico agile, con pezzi non superiori alle 45 righe, fotografie usate non come riempitivo ma come elemento della notizia, titoli a due righe con occhiello e un sommarietto, dunque capaci di spiegare bene una notizia, senza ridurla a stupidi calembour.

Avendo lavorato per un decennio in piccoli giornali definiti con epiteti tipo «giornalaccio»; «giornaletto»; «giornale scandalistico» eccetera, non sopporto poi quando si definisce un giornale «minore». È ovvio che se definisci – l’articolo di Belpoliti lo fa  un giornale «maggiore» è perché pensi ve ne sia un altro di segno opposto. Non è solo orgoglio, ma l’idea insopportabile che noi del «giornaletto minore» magari non ci prendiamo le responsabilità come «quelli grandi».
Eh no. Se il maestro Manzi aveva la bacchetta e la lavagna ma per finta, per ricreare un ambiente scolastico negli studi televisivi, chi ha scritto su un giornale quotidiano sa bene che le necessità, i rischi, le possibilità di trovare notizie buone. E soprattutto sa bene che si può fare informazione.  Informazione di servizio? Sì, ma è affatto una funzione secondaria rispetto a quella delle testate principali, zeppe di editorialisti e di lenzuolate sulla politica  nostrana, ormai illegibili.

Wikileaks, la chiave della questione

L’Occidente ha “fiscalizzato” le sue relazioni di potere attraverso una rete di contratti, prestiti, possesso di azioni e proprietà finanziarie. In questo contesto, è facile avere la libertà di parola perché un cambiamento politico raramente porta alcun cambiamento reale in questa rete di rapporti e prorietà. La libertà di parola occidentale, essendo qualcosa che raramente ha alcun effetto sul vero potere, è libero come gli uccelli e i tassi (cioè serve a poco, ndr). In stati come la Cina c’è invece una censura pervasiva perché la libertà di parola ha ancora un potere e dunque il potere la teme. Dobbiamo sempre guardare alla censura come a un segnale economico che rivela il potere potenziale della libertà di espressione in quel tipo di governo. Gli attacchi contro di noi da parte degli Stati Uniti ci fanno intravedere una grande speranza, ovvero che esista una parola così potente da poter rompere questo blocco d’interessi.

Julian Assange risponde sul Guardian, traduzione su l’Espresso

L’Italia da distruggere, il giornalismo, le nostre vite

«In Vietnam guidavo un aereo, guidavo un carro armato, disponevo di attrezzature per milioni e qui non riesco neppure a trovare un posto da parcheggiatore».
John J. Rambo (il primo della serie)

Sfoglio le paginette intestate “Ministero del Lavoro”, c’è la mia sigla e la mia firma per esteso: le ho sottoscritte, ero fra quelli al tavolo sindacale che hanno accettato il suono dell’inevitabilità, ovvero la morte di EPolis, il giornale per il quale, negli ultimi quattro hanno ho prestato la mia modesta opera di redattore. Anche due anni accadde più o meno la stessa cosa, ma si risolse in maniera decisamente migliore, con un nuovo imprenditore e una nuova avventura. Stavolta pare sia decisamente più difficile quest’epilogo, debiti e difficoltà varie rendono complicato il salvataggio di questo vascello pirata, 146 dipendenti, 118 dei quali giornalisti. Ne avete sentito parlare in giro? Poco, pochissimo.

Potevamo stare più attenti e lanciare l’allarme prima? Forse sì. Potevamo  impedire che ciò accadesse? Sicuramente no. In Italia se rubi in un supermarket te la vedi brutta con la legge. Se succede qualcosa che supera il milione d’euro ed hai un buon pool di avvocati, commercialisti, specialisti in spezzatini societari, dormi fra quattro guanciali.

Ho capito solo dopo, che ero già inconsciamente preparato, all’evenienza del crac. Non era dunque un caso, il sentirsi più affine al Coordinamento giornalisti precari costituito con tanti amici un anno fa, che al sindacato d’appartenenza, la Fnsi.

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Quando fallisce un lavoro del genere c’è sempre qualcuno che ti mostra il lato buono. E ti sembra di sentire quello slogan che recita «è tutto intorno a te».

In effetti le possibilità ci sono e riesci anche a toccare con mano queste nuove  possibilità. Se sei bravo, talentuoso o comunque se hai voglia di lavorare non è difficile. Salvo poi voler salire il gradino successivo e scontrarsi con la realtà di certi fatti, ed è qui che vengo alla seconda storia, quella di Paola Caruso.
E’ una persona che non conosco se non da qualche twit. Lavora al Corriere della Sera da precaria, lo fa da sette anni. Sul sito web del Corsera ho contato circa 400 suoi articoli. Uno degli ultimi era titolato così:

Poi a Paola, lo racconta suo blog, è successo qualcosa.

La scorsa settimana si è liberato un posto, un giornalista ha dato le dimissioni, lasciando una poltrona (a tempo determinato) libera. Ho pensato: “Ecco la mia occasione”. Neanche per sogno. Il posto è andato a un pivello della scuola di giornalismo. Uno che forse non è neanche giornalista, ma passa i miei pezzi.
Ho chiesto spiegazioni: “Perché non avete preso me o uno degli altri precari?”. Nessuna risposta. L’unica frase udita dalle mie orecchie: “Non sarai mai assunta”.

Insomma, lei ha fatto lo sciopero della fame, nel momento in cui scrivo lo sciopero è ancora in corso. In Rete si è sviluppata una mobilitazione massiccia dopo la quale il direttore del Corriere ha risposto che no, non c’era motivo di prendersela per un contratto a tempo determinato.  Siccome la Rete dà e la Rete prende è successivamente nato un piccolo ma gruppo di scettici/scontenti, persone la cui idea è che non si può sperare in un lavoro a tempo indeterminato dopo aver prestato opera per anni nello stesso giornale, che la meritocrazia, il libero mercato, eccetera. 

Indignati autentici, indignati professionali, tanti flame sui social network. Ma presto in Rete torneranno tutti ad interrogarsi su altro. Che so, l’impatto dell’iPad sulle vendite dei quotidiani, su quanto il bottone di Facebook nei blog abbia cambiato l’informazione. E,  incredibile a dirsi, ci si scorderà per l’ennesima volta dei manovali dell’informazione, di questi fantomatici precari schiacciati ad ogni crisi aziendale, dileggiati ad ogni richiesta, esclusi da  ogni vera contrattazione sindacale.
I precari nel giornalismo italiano sono un poco come andare dal fruttivendolo. Come gli “odori”. Prezzemolo, carota, basilico, sedano. Fondamentali per il brodo finale, ma  alla fine, di scarso rilievo “commerciale”. Non gliene frega niente a nessuno. Finquando non manca all’appello la loro necessaria opera.

Dunque precario significa che lavori per concessione altrui. Fare il giornalista per concessione significa essere l’anello più debole di una catena già bacata.  Si parla di bavagli e libertà d’informazione dimenticando che un precario non sarà mai autonomo. E il suo prodotto, l’informazione, ne risentirà.

Che dovrà succedere, ancora, nel giornalismo italiano affinché qualcuno si accorga di questo dramma, identico a quello del comparto metalmeccanico, chimico, dei servizi, dei trasporti (solo che lì non ci sono scuole universitarie di giornalismo a 12mila euro)?
La prossima Paola cosa dovà fare, per attirare l’attenzione su un problema così gigantesco? Il mito del giornalista cinico appartiene solo a chi ha soldi e posizione per vivere tranquillo. Per il resto, vale Ungaretti: come d’autunno sugli alberi le foglie.