Un giorno tutto questo studiare dai manuali di giornalismo (forse) ti sarà utile

Come tutti i cronisti che non hanno frequentato master post laurea o scuole di giornalismo, nutro profonda ammirazione verso coloro i quali riescono a spiegare cose che io sono riuscito a imparare solo guardandole, comprendendole e imitandole (meglio o peggio non sta a me dirlo). Dunque i manuali di giornalismo e di scrittura sono la mia passione. Ne ho molti. Dal Murialdi al Papuzzi a quelli di Sergio Lepri e Furio Colombo. Insieme ai manuali ci sono poi tantissimi libri sul mestiere che andrebbero letti: quelli che raccontano l’esperienza (uno su tutti “Parola di giornalista” di Vittorio Zucconi) o quelli scritti da giornalisti. Mi viene in mente un solo nome su tutti: Oriana Fallaci.

La premessa è per dire che non ce l’ho coi manuali. Li leggo e voglio trovarci risposte alle domande. Ho sfogliato il nuovo manuale di giornalismo Laterza, autori Alessandro Barbano e Vincenzo Sassu; il testo è per ammissione degli stessi autori destinato agli studenti dei master in giornalismo e delle scuole di scrittura. È stato mandato in stampa nel febbraio 2012. Sembra un particolare di poco conto ma a me interessa, ora spiego perché.

Il tomo affronta la «crisi delle aziende editoriali e la transizione verso il mercato delle nuove piattaforme digitali» e si vanta d’essere «il primo manuale di giornalismo che tiene conto della scrittura giornalistica e dell’organizzazione del lavoro nell’era dell’integrazione tra modello cartaceo e modello virtuale». Lo sfoglio. A parte quello di cui mi aspetto si parli (come si fanno i titoli, le varie tecniche d’intervista) scorro alla ricerca della deontologia professionale. E quel che temo si rivela realtà. Nell’analisi del “caso italiano”, non trovo quello che per me avrebbe fatto la differenza. Lo cerco alla voce “etica”. Niente.

Di cosa si tratta? D’un minimo accenno all’ultima nata tra le carte deontologiche dell’Ordine dei Giornalisti: la Carta di Firenze. Quella varata allo scopo di sanzionare chi nelle redazioni (faccio l’esempio più banale) si rivela complice di un editore che non paga e/o sfrutta i suoi collaboratori. La Carta di Firenze, nata nell’ottobre 2011, è attiva dal gennaio di quest’anno.

Basta questa mancanza (omissione o disattenzione, magari ce lo diranno gli autori) a fare del manuale in questione un cattivo libro? Ovviamente no. Ma la storia fornisce l’opportunità per una discussione sulla struttura di questo tipo di libri. È ovvio che un manuale non ti insegna a fare il giornalista, il chirurgo o il prestigiatore. Alla base teorica occorre necessariamente associare pratica ed esperienza e tutta una serie di specializzazioni. Tuttavia mi chiedo: è giusto consegnare a un aspirante giornalista dei testi di base che prescindano totalmente dalla questione lavorativa? Le tutele che ha il cronista nella difesa della sua retribuzione sono inutili nella formazione? È giusto o no fornire solo una impostazione teorica? È più importante parlare della penny press o del fatto che c’è una carta deontologica, uno strumento (buono, cattivo, efficace, inefficace non sta al manuale stabilirlo ma è suo dovere documentarlo) a tutela del giornalista?

Io sono convinto che retribuzione e qualità del giornalismo sono strettamente legati. O crediamo davvero che guadagnare tre euro ad articolo garantisca la libertà d’un cronista? Quel pezzo vale tanto quanto lo si è pagato. E non perché il giornalista abbia un metro e un’etica diversa a seconda di quanto lo si paga, ma semplicemente perché retribuirlo tre, cinque, sei euro significa non dargli la possibilità di documentare, telefonare, passare 5-6 ore a curare lo sviluppo di una news senza che questo non rappresenti un’operazione a perdere.

Ora capite perché è conveniente per molti sbandierare le foto di Woodward e Bernstein, di Enzo Biagi e Indro Montanelli? Perché nel mito della “stampa, bellezza” venduto a scopo di lucro sguazzano certe scuole di giornalismo (a pagamento), certi corsi specialistici (a pagamento) certe arrembanti riviste che urlano al Watergate e poi finiscono a farti scrivere (gratis) dei fattarielli del loro consigliere comunale di riferimento. Io quella famosa frase la riscriverei: «È la stampa, bellezza. Sì ma tu non fare il pollo».

Per concludere. Se un manuale vuole fornire «un sapere teorico-pratico integrato per chi voglia operare sulla carta stampata, sul radio-televisivo e sulle diverse piattaforme digitali presenti in Rete» deve cambiare approccio. Se un master post laurea vuole formare i giornalisti, deve cambiare approccio. L’esigenza accademica, questo lo comprendo, non può prevedere la trattazione del solo fatto singolo (la vertenza, il licenziamento, una crisi aziendale). Ma è da contestare questo modello di preparazione al giornalismo cui importa poco e niente di calarsi nella sua realtà di riferimento. Anche a causa di questo modello abbiamo gli allegri inconsapevoli “masterizzati”, con tesserino che escono da scuola e pensano: «tutto mi è dovuto». Arrivano nel mercato saturo, drogato, incredibilmente falsato, del giornalismo italiano e si dicono: «Dove ho sbagliato?».

Non hanno sbagliato niente loro. Semmai hanno sbagliato quelli che gli hanno dato la patente.

 

Il Quotidiano dei Giovani che non paga (e il ministero che c’entra?

Ci sono decine, centinaia di annunci del genere su siti internet, sulle riviste specializzate, volantini stradali. Perfino nei Google Adsense di questo blog (ma io vi avverto: non vi fidate!). Giornali che promettono la sfolgorante carriera del giornalista in cambio di tempo, lavoro e serietà. E la loro serietà qual è? Non pagare. Ecco, non esiste gavetta più stupida di questa, fatta così è inutile, oggi.
Il caso in questione merita attenzione. Il “Quotidiano Giovani”  che non conoscevo finora, offre lavoro. Lavoro per modo di dire. Ecco di che si tratta:

 Si richiede reale interesse per la partecipazione al progetto, desiderio di crescere insieme alla testata dedicando, al di là del tempo, reale impegno e serietà. Si offre la possibilità di partecipare ad un progetto giovane, dinamico e ambizioso, e di fare esperienza in quella che vuole essere anche una palestra per aspiranti giornalisti con l’opportunità di  conseguire  i requisiti necessari al tesserino da pubblicista.  

 

Di retribuzione manco l’ombra.
Cari amici, colleghi, aspiranti tali. Diffidate da chi in cambio del vostro lavoro, seppur agli inizi di questa professione, vuole offrirvi “il tesserino” facendovi lavorare gratis. Primo perché non è detto che ci riusciate, ad ottenerlo. Secondo perché un titolo così (ammesso che i pubblicisti di qui a qualche mese continuino ad esistere) non serve a nulla.
C’è poi un’altra cosa che inquieta  e non solo me, ma anche Luca, il collega che ha sollevato per primo la questione: perché questo sito ha in bella evidenza un banner della Presidenza del Consiglio, dipartimento della Gioventù (prima guidato da Giorgia Meloni, oggi delega affidata al ministro Andrea Riccardi)?
In che modo il ministero partecipa alla realizzazione di questa pubblicazione? Sarebbe  quanto meno spiacevole sapere che una rivista con questo tipo di vaghe (uso un eufemismo) proposte lavorative c’entri qualcosa con Palazzo Chigi.